PERCHÉ LE API FANNO IL MIELE?
Da molto tempo gli uomini studiano la straordinaria società delle api. Molte sono le domande alle quali hanno già risposto, ma ancora molti segreti dell'alveare devono essere svelati.
Le api si dividono in tre «caste»: regine, maschi o «fuchi» e operaie. La regina, che vive quattro o cinque anni, ha il compito di produrre uova. I maschi, di vita brevissima, hanno il compito di fecondarle, mentre alle operaie spetta la massima parte del lavoro. Esse, infatti, costruiscono l'alveare con la cera prodotta da certe loro ghiandole, e provvedono a mantenerlo pulito ed areato.
Sono ancora esse che, volando di fiore in fiore, raccolgono il polline in piccole borse che hanno sulle zampette e succhiano il nettare.
Dopo aver fatto rifornimento ritornano all'alveare e il nettare che esse hanno inghiottito, viene trasformato in miele grazie ad un processo di secrezione delle ghiandole salivari.
Con esso le operaie nutrono le piccole larve, la regina e i fuchi.
PERCHÉ GLI UCCELLI POSSONO VOLARE?
Fin dai tempi più antichi l'uomo ha sempre sognato di volare: forse avrete sentito parlare del mitico tentativo di Dedalo e Icaro e delle numerose prove effettuate da Leonardo. Ma, per volare, l'uomo ha dovuto costruirsi un aereoplano perché da solo non ci sarebbe mai riuscito.
Eppure, guardando un uccello librato in aria, proviamo ancora un senso di stupore e di invidia. Perché gli uccelli possono volare ed un uomo no? Bisogna osservare la loro struttura fisica.
Prima di tutto essi hanno le ali che permettono loro, come dei buoni remi, di spostarsi nell'aria e di restar sospesi prendendola a sostegno. Ma, oltre a ciò, la loro capacità di volare è dovuta soprattutto alla leggerezza delle ossa; queste, infatti, sono ossa «cave», contengono, cioè, spazi pieni d'aria che le rendono leggerissime ed atte ad essere sostenute in volo con un minimo sforzo.
Osservando poi lo scheletro, possiamo notare un torace robusto e «carenato», fatto cioè come la prua di una barca, che sostiene muscoli possenti capaci di muovere con forza le ali.
PERCHÉ I PESCI POSSONO RESPIRARE SOTT'ACQUA?
I pesci sono vertebrati che vivono esclusivamente nell'acqua e la Natura ha fornito loro un apparato respiratorio adatto alla vita subacquea.
È per questo che, a differenza degli uomini, i pesci possono vivere sott'acqua senza annegare. Gli uomini usano, per respirare, i polmoni, organi che possono ricevere solo aria da cui traggono ossigeno con il quale arricchiscono il sangue. I pesci, invece, non hanno polmoni, ma branchie, molli frange rosse poste ai lati della testa assai ricche di vasi sanguigni.
Se nell'uomo la circolazione è doppia, il cuore cioè prima invia ai polmoni il sangue povero di ossigeno, quindi, ricevutolo nuovamente ricco di ossigeno lo invia alle varie parti del corpo, nei pesci la circolazione è semplice e il cuore riceve solo sangue venoso, povero di ossigeno e ricco di anidride carbonica, lo invia alle branchie, dove perde l'anidride carbonica, si rifornisce di nuovo ossigeno e ritorna, senza passare attraverso il cuore, nelle varie parti del corpo.
L'ossigeno, il sangue lo trae dall'acqua che bagna continuamente le branchie le quali, come avrete potuto notare osservando un pesciolino rosso in un vaso di vetro, si alzano e si abbassano ritmicamente, seguendo l'aprirsi e il chiudersi della bocca.
Non tutti gli abitanti del mare posseggono branchie; non tutti cioè, sono dei pesci. Ci riferiamo ai mammiferi marini (il delfino, la balena e vari altri) i quali hanno un apparato respiratorio ed una circolazione sanguigna simili a quelli dell'uomo.
Essi, perciò, devono periodicamente affiorare per rifornirsi d'ossigeno direttamente dall'aria e, se costretti da qualche impedimento a restare a lungo sott'acqua, come gli uomini, rischiano di annegare.
Rappresentazione schematica dell'anatomia dei pesci
PERCHÉ L'OSTRICA PRODUCE LE PERLE?
Le ostriche perlifere, tra cui la più nota ed apprezzata è la Meleagrina, prediligono i mari caldi e sono diffuse dal Mare Rosso al Pacifico. Le ostriche appartengono alla classe dei Lamellibranchi molluschi protetti da una conchiglia formata da due valve quasi simmetriche, scabrose e striate all'esterno, levigate e lucenti all'interno grazie ad un rivestimento di madreperla. È proprio questo strato che rende le ostriche pregiate e dona loro un notevole valore commerciale. La raccolta delle ostriche viene effettuata proprio per il valore delle conchiglie che vengono utilizzate nell'industria per la fabbricazione di bottoni ed altri oggetti di madreperla.
Ma l'ostrica può nascondere un'ospite ben più preziosa: la perla. Questa gemma iridescente è formata della stessa sostanza della conchiglia e l'organo che produce questa, detto mantello, produce anche la perla.
A che cosa è dovuta la nascita di una perla nell'interno di un'ostrica? La perla è niente altro che una anomalia, il frutto di una «cattiva digestione» (e ciò spiega anche la sua rarità).
Il molle corpo dell'ostrica che, alle origini, ha dovuto rivestirsi di una conchiglia per difendersi dall'attacco dei pesci, è assai sensibile alla presenza di corpi estranei.
Non appena tra le valve, dischiuse per la raccolta del plancton che cade dall'alto, entra indesiderato un granello di sabbia o un piccolissimo pesce con abitudini parassite, subito l'ostrica lo cattura e lo rende innocuo avvolgendolo di vari strati di madreperla.
Nasce così la perla!
Le ostriche vivono a non grande profondità, ancorate alle rocce o sul fondo.
La pesca si fa a tuffo e il numero delle ostriche annualmente raccolte è enorme: solo pochissime tra esse, contengono la preziosa anomalia che deve il suo pregio alla sua rarità.
PERCHÉ IN PRIMAVERA ARRIVANO LE RONDINI?
La rondine è il classico esempio dell'uccello migratore, uso a compiere grandi distanze in volo, periodicamente, seguendo l'alternarsi della buona stagione.
All'inizio della primavera, dunque, le rondini abbandonano le zone temperate e tropicali dell'Africa centrale e meridionale dove hanno trascorso l'inverno e, attraversato il Mediterraneo, ritornano alle loro antiche dimore, abbandonate all'inizio dell'autunno precedente.
Le vecchie coppie riattano e rendono nuovamente abitabili i vecchi nidi, mentre le giovani ne costruiscono di nuovi, sotto i cornicioni dei tetti. Questi nidi, veri e propri capolavori d'ingegneria, sono fatti di fango impastato con fuscelli e pagliuzze ed hanno la forma di una barca tagliata a metà nel senso della lunghezza.
Nell'interno, sopra uno strato di penne e di fieno, vengono deposte cinque o sei uova in ciascuna delle due covate, che avvengono in aprile ed in giugno.
I piccoli, che nascono implumi e del tutto inetti, sono alimentati amorevolmente dai genitori e, più tardi, educati al volo.
Nel settembre, all'arrivo dell'autunno, sono proprio gli ultimi nati a partire per primi per raggiungere i caldi climi equatoriali e tropicali, dove trascorrere l'inverno.
PERCHÉ I PAPPAGALLI PARLANO?
La tradizione popolare attribuisce ai pappagalli capacità loquaci straordinarie.
Grazie alle numerosissime storielle sul loro conto, noti sono i pappagalli «lupi di mare» che immessi, nella società, imperversano con il loro fiorito linguaggio marinaresco non sempre corretto e civile, e non meno noti sono i molti «Loreto», fautori linguacciuti di situazioni imbarazzanti per i loro interventi a sproposito.
Il pappagallo, più della scimmia, che pur lo sopravvanza in virtù mimiche, per la sua capacità di ripetere il suono della parola umana, ha fornito all'uomo il termine per definire certe abitudini fanciullesche, quelle di ripetere «pappagallescamente» appunto, le cose dette o fatte dai grandi.
Ma osserviamo la realtà per ciò che è veramente, dando a Cesare quel che è di Cesare e al pappagallo ciò che gli spetta.
Questo variopinto uccello rampicante, che popola, possiamo dire, tutto il mondo, eccetto l'Europa, e che si presenta in moltissime varietà più o meno colorate e dalle dimensioni diverse, è veramente un uccello straordinario.
La forma delle dita, oltre a renderlo un ottimo arrampicatore, gli permette anche di afferrare il cibo e di portarlo alla bocca. Il becco, adunco e fortissimo, serve oltre che per spezzare il cibo, anche come mezzo per sorreggersi nelle scalate, per afferrarsi al tronco o ai rami degli alberi.
La lingua, spessa e mobilissima, è utilizzata come un organo tattile.
Il cervello, in proporzione alla notevole grossezza della testa, è molto sviluppato.
Il pappagallo è, dunque, un uccello molto intelligente e, come tale, addomesticabile con risultati davvero strabilianti.
È proprio dovuta a questa sua intelligenza, eccezionale per un uccello, la capacità di eseguire degli ordini e, grazie ad un apparato vocale notevolmente sviluppato, la capacità di imitare il suono della voce umana, con una dizione che, in certi casi, si avvicina moltissimo alla perfezione.
Esemplare di pappagallo
PERCHÉ LA RANA VIVE NELL'ACQUA?
La rana appartiene ad una classe di animali, detti «anfibi», che si differenzia da tutte le altre classi. Il termine «anfibio» significa «che ha una doppia vita» ed infatti tutti gli animali che fanno parte di questa classe subiscono, dal momento della loro nascita, profonde trasformazioni, passando da un'esistenza totalmente acquatica ad un esistenza prevalentemente terrestre.
La rana nasce da un piccolissimo uovo che vaga nell'acqua, in un ammasso di moltissime altre uova avvolto da un'involucro gelatinoso, e, non appena è nata, si comporta come un pesce, né più né meno.
Il girino (questo è il nome della piccolissima rana) non possiede, infatti, dei polmoni ma branchie esterne, dei ciuffi ramificati posti ai lati della testa che gli permettono di respirare l'aria disciolta nell'acqua.
Crescendo, dapprima le branchie da esterne diventano interne, simili a quelle dei pesci, quindi vengono sostituite dai polmoni.
A questo punto il girino si è trasformato in rana: essa esce dall'acqua e inizia a vivere sulla terra. Ma, nonostante questa sua radicale metamorfosi, la rana non può allontanarsi dall'acqua poiché questo elemento, nel quale è nata, è ancora molto importante per la sua esistenza.
Oltre a costituire, infatti, un sicuro rifugio dagli attacchi di numerosi nemici (tra cui l'uomo stesso) l'acqua è necessaria alla rana per respirare. Se osservate una rana noterete che la sua pelle è pressoché nuda.
Essa partecipa attivamente alla funzione respiratoria: munita di una fittissima rete di capillari sanguigni, permette, sia perché sottile sia perché tenuta costantemente umida, lo scambio respiratorio tra l'aria esterna e il sangue che circola nei vasi sanguigni posti in superficie, sotto la pelle. La respirazione, comunque, non è molto attiva nelle rane: la quantità di anidride carbonica emessa è, in proporzione, dieci volte minore che nei mammiferi.
Per questo la temperatura del corpo di una rana non è molto elevata e, così come avviene nei rettili, varia al variare della temperatura esterna.
PERCHÉ MOLTI SERPENTI SONO VELENOSI?
In una grande tavola riportata precedentemente abbiamo potuto vedere alcuni grandi rettili vissuti duecento milioni di anni fa. Allora la Terra era loro dominio incontrastato: chi poteva, infatti, superarli in forza e dimensioni?
Essi abitavano le acque, l'aria e le terre emerse, mentre le altre specie dovevano accontentarsi di vivere nascoste per difendersi da così grandi e temibili nemici.
Poi i grandi rettili scomparvero e solo poche specie riuscirono a sopravvivere.
Di rettili attualmente viventi si contano circa 3800 specie ma, sia per numero che per forma e dimensioni, non possono reggere il confronto con i loro straordinari progenitori estinti.
Una caratteristica che li contraddistingue è la pelle, lo strato corneo superficiale fatto di placche e squame che, nei serpenti, si stacca e si rinnova nelle mute cui vanno periodicamente soggetti. Tipico è anche lo scheletro: nei serpenti le vertebre sono più di quattrocento con costole libere, utilizzate per la locomozione: facendo leva su di esse, infatti, e presa sul terreno con le squame ventrali raddrizzate, i serpenti strisciano al suolo senza contrazioni o movimenti apparenti, tanto che comunemente si dice che essi «camminano sulle costole».
Gli occhi non hanno palpebre mobili ma sono ricoperti da una membrana trasparente che conferisce loro il caratteristico sguardo fisso e vitreo. La bocca è straordinariamente dilatabile, grazie alla particolare conformazione delle ossa del cranio. Le ossa delle mascelle, infatti, invece d'essere saldate al resto della testa come avviene nelle altre specie animali e anche nell'uomo, sono libere e permettono così ai serpenti d'ingoiare prede di mole molto maggiore di quella consentita dalla normale apertura della bocca.
I serpenti, per la maggior parte sono velenosi.
Questa del veleno non è una caratteristica esclusiva dei serpenti: se dovessimo fare un elenco di tutte le specie animali in possesso di veleno, ci stancheremmo di enumerarle.
Il veleno è un'arma che moltissimi animali si sono procurati, nelle loro trasformazioni millenarie, per sopravvivere. Esso è un formidabile mezzo di difesa e molto spesso è l'unico mezzo d'offesa a loro disposizione. Con il veleno, infatti, essi immobilizzano la preda per potersela divorare con tutta comodità.
Ma, pur non essendo il veleno una caratteristica esclusiva dei serpenti, non possiamo non associare alla parola «serpente» la parola «veleno»; poiché, se per l'uomo il veleno degli altri animali non provoca che fastidiose irritazioni o passeggeri gonfiori a volte dolorosi ma senza conseguenze (salvo rare eccezioni), quello dei serpenti, in moltissimi casi, può essere mortale.
I serpenti portano il veleno in una sacca posta tra la bocca e gli occhi. Ad inoculare il veleno servono due denti cavi e mobili che, in condizioni di riposo, sono adagiati sulla volta della bocca con la punta rivolta verso l'interno.
Non appena un serpente sta per mordere, spalanca la bocca e i denti scattano in avanti.
Dopo che, aguzzi e taglienti, sono penetrati nella carne della preda, la pressione della mandibola comprime la ghiandola velenifera che invia una buona dose di liquido micidiale, per un condotto che attraversa i denti, nel sangue del nemico.
Estrazione del veleno di un cobra
PERCHÉ GLI UCCELLI CANTANO?
Siamo ai margini di un bosco, in una giornata calda e piena di sole. Sentiamo gli uccelli che cantano ma la bellezza della natura che ci circonda non ci consente di assumere, nei confronti di quel canto un atteggiamento indagatore, proprio dello scienziato. Ci sentiamo piuttosto dei poeti e ci lasciamo cullare dalla meravigliosa ridda di colori e, soprattutto, dall'incanto di quelle melodie. Orsù, facciamoci forza e concentriamo la nostra attenzione sul canto degli uccelli poiché, in verità, una maggiore conoscenza del fatto agirà sulla nostra immaginazione e sulle nostre sensazioni future.
Distinguiamo subito il canto dalla voce, dal richiamo, dal verso e dal grido puri e semplici: il canto è una voce modulata, una frase complessa, fatta di molte tonalità, un'espressione, possiamo dire, di pensiero.
Il canto nasce dalla «siringe», un organo posto alla biforcazione della trachea nei bronchi, provvisto di legamenti elastici o corde vocali.
Perché gli uccelli cantano?
Cantano perché, di solito, vogliono esprimere uno stato d'animo d'euforia e di felicità.
La maggior parte delle volte chi canta è un maschio che fa la dichiarazione d'amore alla femmina della sua specie.
Alle piume colorate, alle creste ed ai numerosi atteggiamenti di richiamo, aggiunge il canto, come tocco finale. Può essere, questo, un tocco d'artista, da vero maestro, ed allora il risultato è sicuro. È proprio così: tra gli uccelli di una stessa specie si possono distinguere i maestri dai discepoli, i veri artisti dai semplici imitatori.
Ma il canto di un uccello non è solo un richiamo d'amore, ma anche una sfida e un'intimidazione rivolta agli altri maschi, un avvertimento che, in linguaggio umano, suona presso a poco così: «Attenzione! Rivali che mi ascoltate, udite la perfezione del mio canto? Non provatevi, dunque, ad imitarmi né ad invadere il mio campo d'azione!» Torniamo ai margini del nostro bosco ad ascoltare i canti melodiosi che s'intrecciano: ora, con maggior consapevolezza possiamo interpretare, capire e godere queste incantevoli «voci» della Natura.
PERCHÉ CI SONO LE BESTIE FEROCI?
Sarebbe più aderente alla realtà chiedere «Perché ci sono animali domestici» dal momento che questi discendono tutti da forme selvatiche che l'uomo, fin dai tempi più antichi, ha adattato a vivere con lui, riuscendo a poco a poco ad addomesticarli ed a mitigarne la primordiale ferocia. Oggi giochiamo con cani e gatti senza pericolo, considerando addirittura i primi come i migliori amici dell'uomo; e quando poi, visitando un giardino zoologico, guardiamo con reverenziale timore leoni, tigri e lupi che passeggiano fieramente nelle loro gabbie, raramente li mettiamo in relazione con i nostri pacifici amici.
Eppure appartengono tutti alla stessa famiglia, tutti sono compresi nel vasto ordine dei carnivori. Leoni, tigri, leopardi, pantere, giaguari, ghepardi, linci e... gatti sono noti con l'appellativo di «Felini» ed hanno tutti delle caratteristiche comuni, quali la grande agilità e il possesso di armi formidabili nei denti e negli artigli.
Il lupo, lo sciacallo, la volpe e... il cane appartengono alla famiglia dei canidi e si distinguono dai precedenti carnivori per una maggiore dentatura e per gli artigli, robusti sì, ma non retrattili come quelli dei felini e, perciò, meno appuntiti ed affilati.
Insieme ai suddetti carnivori, appartengono a questo grande ordine le iene, i mustelidi (faina, martora, furetto, donnola, lontra, tasso etc.) e gli orsi. Questa distinzione non viene adoperata tanto perché essi mangiano carne, dal momento che solo la grande famiglia degli ungulati (cavalli, buoi etc.) e poche altre specie sono completamente erbivore mentre quasi tutti gli animali, uomini, uccelli e pesci compresi, mangiano carne, quanto perché certe loro caratteristiche quali i denti, gli artigli ed una notevole ferocia, fanno di essi i carnivori per eccellenza.
Esemplare di tigre
PERCHÉ CERTI ANIMALI SVOLGONO LA LORO ATTIVITA' DI NOTTE?
Se consideriamo, da un punto di vista del tutto umano, le difficoltà che ogni essere vivente deve superare per potersi assicurare la sopravvivenza, saremmo portati a considerare la Natura una madre crudele.
Gli animali, dal canto loro, lungi dall'emettere certi giudizi, si sono adattati all'ordine naturale delle cose e, da sempre, hanno escogitato una infinità di trovate per sopravvivere.
Il risultato è il meraviglioso equilibrio tra le nascite e le morti, equilibrio turbato solo dallo sconsiderato intervento sterminatore dell'uomo.
All'infinita gamma di mezzi di sopravvivenza può essere riferita l'esistenza degli animali notturni che, fin da tempi remotissimi, hanno fuggito i multiformi pericoli della luce del giorno per legare la loro vita alla notte.
Il buio è un rifugio sicuro e, sviluppando certi sensi, un mezzo d'offesa nei confronti di altri animali provvisti solo di sensi adatti alla luce diurna.
I più noti predoni della notte sono le «Strigi», termine che abbraccia tutta la serie dei «rapaci notturni», quali le civette, i gufi e i barbagianni. Il loro aspetto è assai caratteristico (potremmo definirlo umano): gli occhi grandi, rotondi e molto dilatabili, posti anteriormente nella testa grossa e tonda, possono vedere la preda anche se la luce è scarsissima.
Alcune specie (civetta, assiolo) sono molto utili poiché distruggono in grande abbondanza insetti e topi dannosi all'agricoltura.
I gufi, invece, sono sottoposti ad una caccia spietata da parte dell'uomo perché grandi sterminatori di selvaggina.
Le Strigi non sono, comunque, i soli animali notturni. Moltissime altre specie hanno preferito garantirsi la sopravvivenza al riparo dell'oscurità. Tra i primi possiamo ricordare i Bradipi, noti col nome di Poltroni, dell'ordine degli «Sdentati», che, di giorno, dormono appesi ai rami con il capo tra le zampe anteriori: nel pelo ispido vegetano muffe verdognole che li fanno assomigliare ad un ceppo coperto di muschio, confondendoli così con la vegetazione.
Ed ancora, gli Armadilli, coperti da una corazza ossificata, che di giorno si appallottolano come ricci ed infine le varie specie di Lemuri, note con il nome di Proscimmie, per la notevole somiglianza con i Primati.
Tra i predoni notturni possiamo ricordare la iena, vorace e vigliacca, le varie specie di pipistrelli, gli sciacalli, la volpe e la faina che, pur non essendo dei veri e propri animali notturni, preferiscono l'oscurità della notte per compiere le loro imprese ladresche nei pollai.
PERCHÉ LE ANATRE IN ACQUA NON SI BAGNANO?
Mentre sul terreno le anatre hanno un'andatura goffa ed impacciata, nell'acqua si trovano completamente a loro agio.
Agili ed eccellenti nuotatrici, appartengono all'ordine dei Palmipedi, una nutritissima famiglia che comprende tutti gli uccelli acquatici forniti di piedi palmati, con le dita, cioè, unite da una membrana e assai adatte al nuoto.
La loro prevalente esistenza acquatica ha determinato caratteristiche tipiche nel loro aspetto. Il tronco, non molto slanciato, offre un'ampia superficie con cui appoggiarsi sull'acqua e il corpo è difeso perfettamente dall'attacco del freddo e dell'umidità.
Il petto e il ventre sono protetti da un fitto piumino rivestito da uno strato di penne elastiche e convesse ed infine tutte le penne del corpo (specialmente le remiganti, quelle che formano le ali) sono spalmate di una sostanza grassa prodotta da una speciale ghiandola detta «uropigio». Questa ghiandola, posta sotto la coda, è comune a tutti gli uccelli che se ne servono per ungere le penne, soprattutto quelle delle ali, per difenderle dall'umidità, che, in tutti i casi, appesantendole, ostacolerebbe notevolmente il volo.
In particolare negli uccelli che hanno scelto l'acqua come loro elemento naturale, il piumaggio fitto e pressoché impenetrabile e la notevole capacità secretiva dell'uropigio, consentono una difesa efficace contro l'umidità e permettono loro nuotate ed immersioni prolungate senza che il loro corpo risulti minimamente bagnato.
PERCHÉ LE LUCCIOLE MANDANO LUCE?
La lucciola appartiene all'ordine dei Coleotteri, come gli scarabei, i maggiolini e le coccinelle.
Gli individui adulti che, all'inizio dell'estate, sfarfallano al crepuscolo e nella notte, sono insetti piccoli, dal corpo allungato e molto delicati, a differenza di altri insetti della stessa famiglia che hanno il corpo rivestito di una corazza piuttosto resistente.
Le lucciole depongono uova luminescenti, da cui nascono larve allungate, anch'esse fornite di una lieve luminosità diffusa, che si nutrono predando i molluschi terrestri.
In alcune specie gli individui adulti sono sprovvisti di ali, hanno elitre assai ridotte e il loro aspetto assomiglia a quello di una larva.
In altre solo le femmine non hanno ali: in questi casi la luce che emettono è continua mentre solo negli individui che volano essa è intermittente.
La luce serve alla lucciola per richiamare l'attenzione degli appartenenti alla sua specie e, soprattutto negli individui che non volano, è un indispensabile mezzo di richiamo per attirare individui di sesso contrario per effettuare la riproduzione.
La luce fredda, giallo-verdastra, è prodotta da particolari organi posti negli ultimi segmenti dell'addome. Questi organi sono formati da uno strato adiposo in cui avviene un particolare processo chimico, detto luciferasi, nel quale l'ossigeno agisce su una sostanza, chiamata «luciferina», che, sottoposta ad ossidazione, genera la caratteristica luminescenza.
La luce infine, viene amplificata e diffusa dai liquidi urici che si trovano nell'addome e che in pratica compiono lo stesso servizio del vetro di un faro di automobile.
PERCHÉ CERTI ANIMALI VIVONO SOTTO TERRA?
La maggior parte degli animali che vivono sulla terra in essa depongono le uova. La terra è, oltre che un rifugio ed un nascondiglio, anche un veicolo di sopravvivenza per i piccoli nati che, nell'humus ricco di sostanze organiche ed inorganiche, trovano il cibo sufficiente per nutrirsi.
La terra è il nido naturale per le larve e l'unico mondo possibile per gli animali più piccoli ed indifesi: in essa, oltre al cibo, essi possono trovare una tana sicura, un nascondiglio efficace. La vastissima specie degli invertebrati che abbraccia gli insetti e miriapodi (scolopendre, millepiedi etc.) vivono in gran parte immersi nella terra: essa è il loro ambiente naturale a causa delle loro ridotte dimensioni e in essa possono nutrirsi e moltiplicarsi con una certa sicurezza. Ma se la superficie terrestre è costantemente bersagliata da animali di mole superiore che vi attingono cibo, nutrendosi proprio dei piccoli animaletti che la popolano, sottoterra essi possono vivere un'esistenza più tranquilla.
Pochi animali, infatti, compiono l'immane fatica di scavare la terra alla ricerca di cibo: la maggior parte si limita a predare in superficie.
Ma è interessante ricordare un mammifero dalle abitudini sotterranee: la talpa.
La sua immensa voracità lo ha probabilmente portato a fuggire l'enorme concorrenza determinata dai molti predatori terrestri, spingendolo a ricercare un campo di azione unico e libero da avversari: il sottosuolo.
La talpa, dunque, scava una tana che le serve da dimora, da cui si dipartono lunghe e tortuose gallerie nelle quali l'animale va a caccia di insetti. È molto efficacemente organizzata per questo genere di vita.
Ha la testa conica e un corpo massiccio. Le zampe anteriori a forma di palette sono gli arnesi di scavo, mentre le zampe posteriori poggiano su tutta la pianta e servono a spingere in avanti il corpo mentre l'animale scava.
Ha occhi piccolissimi e quasi ciechi, ma olfatto e tatto assai sviluppati. La dentatura è completa con canini e molari molto aguzzi.
Si ciba di insetti, di lombrichi, di lumache e perfino di piccoli vertebrati. La sua fame è insaziabile: giornalmente ha bisogno di una quantità di cibo pari al peso del proprio corpo e un digiuno di sole dieci ore può ucciderla.
È forse per questo, per garantirsi cioè la sopravvivenza, che ha acquisito delle abitudini quasi uniche: vivendo sottoterra ha voluto assicurarsi un gettito di risorse alimentari pressoché inesauribile.
PERCHÉ LE BALENE SONO MAMMIFERI?
Molti potrebbero pensare che tutti gli animali che vivono nel mare siano da considerarsi pesci.
Non è così: esistono due ordini, i cetacei ed i sirenidi (dugongo), che pur vivendo in mare sono dei mammiferi.
Che differenza passa fra un pesce ed un mammifero? Un pesce respira attraverso le branchie e depone le uova, un mammifero respira attraverso i polmoni, partorisce i piccoli vivi e li allatta. I mammiferi marini, perciò, non possono restare a lungo sott'acqua, elemento esclusivo dei pesci, ma sono costretti periodicamente a riaffiorare per rinnovare la scorta d'aria nei polmoni.
Si ritiene che queste specie un tempo vivessero sulla terra e che, forse per garantirsi una maggiore quantità di cibo, prendessero successivamente la via del mare, modificando a poco a poco il loro aspetto e adattandolo al nuovo tipo di esistenza.
Il loro scheletro presenta caratteristiche affini a quello dei mammiferi terrestri e, soprattutto nel delfino, il cervello, organo molto sviluppato in tutti i mammiferi, si avvicina per capacità a quello dell'uomo.
Oltre ai delfini, appartengono all'ordine dei cetacei l'orca, il capodoglio e la balena.
Quest'ultimo è il più grosso animale vivente (può raggiungere la lunghezza di 35 m.), è sprovvisto di denti ed ha, in loro vece, dei «fanoni», lamine cornee che pendono verticalmente dal palato.
I fanoni sono numerosissimi, circa ottocento, e costituiscono una specie di filtro nel quale restano impigliati in gran numero piccolissimi crostacei e plancton (massa enorme di microrganismi animali e vegetali vaganti nel mare), esclusivo nutrimento della balena.
PERCHÉ CERTI ANIMALI VIVONO IN BRANCHI?
Pur riconoscendo di proporvi una suddivisione arbitraria e piuttosto approssimativa, potremmo dividere gli animali in due grandi famiglie: da una parte gli animali che sono portati a vivere in grandi comunità, in branchi o in mandrie, e dall'altra i solitari.
Ciò che spinge certi animali a riunirsi in branchi e certi altri a vivere in solitudine è senz'altro il bisogno di sopravvivere e il modo in cui questo bisogno si realizza.
Gli animali che vivono soli o, al massimo, nell'ambito di un ristretto nucleo famigliare, vivono di solito in una zona limitata e circoscritta (una parte di savana, una sezione di foresta, un bosco) e possiedono tutti un rifugio, una tana.
Pur essendo possibili eventuali traslochi per il sopravvenire di un pericolo o per l'impoverimento della zona di caccia, questi animali hanno abitudini stazionarie e la loro esistenza solitaria ha un preciso motivo: non dividere con gli altri la preda faticosamente cacciata ed uccisa.
Esempi caratteristici di questo tipo sono quasi tutti gli animali carnivori e la maggior parte degli animali marini che vivono sulle coste come la murena, il polipo, la cernia e così via.
Gli animali, invece, che manifestano uno spiccato senso gregario sono quelli che, fin dai tempi più antichi, hanno legato la propria esistenza e la propria sopravvivenza alle migrazioni.
A questa categoria appartengono gli erbivori perché costretti a percorrere grandi spazi nelle migrazioni stagionali alla ricerca di cibo (renne, bisonti, bufali, buoi, cavalli, pecore etc.) e così gli uccelli ed i pesci migratori.
È infatti una necessità vitale, per compiere grandi percorsi, per difendersi in mancanza di rifugi e di tane sicure dall'attacco dei nemici, affidarsi al numero.
Così, nel riunirsi in branchi, la loro sopravvivenza è garantita da un'organizzazione comunitaria che varia da specie a specie e che contempla, oltre ad un capo-branco, una serie di regole di comportamento sociale tese ad assicurare il perfetto funzionamento dell'intera comunità.
PERCHÉ CERTI ANIMALI SONO MOLTO COLORATI?
Abbiamo già accennato, precedentemente come i colori di cui gli esseri viventi si ammantano siano delle sostanze coloranti chiamate pigmenti poste nella pelle, nelle piume e così via.
La Natura ha fornito agli esseri viventi mute o manti stabili colorati che vengono utilizzati, per quanto riguarda il colore, per vari scopi, ora mimetici, ora amorosi. Certi animali hanno un manto uniforme che si adatta al tono dell'ambiente naturale in cui vivono. Certi altri hanno addirittura la capacità, possiamo dire, di comandare a bacchetta i pigmenti della pelle e di cambiare colore non appena un nemico si avvicina per confondersi con l'ambiente e passare inosservati, oppure quando sono irritati o innamorati. Certi altri invece hanno assunto colorazioni vivaci e policrome che non hanno niente a che vedere con il mimetismo.
Anzi, possiamo dire che questi hanno indossato un manto simile, tanto variegato ed originale, proprio per non mimetizzarsi e per non confondersi con l'ambiente.
Gli uccelli, nella maggior parte dei casi, sono l'esempio più tipico, per i quali i colori del piumaggio hanno un'importanza fondamentale nel complesso comportamento che precede la riproduzione.
Sarebbe lungo elencare tutti gli animali che posseggono un manto variamente colorato atto a staccarli dall'ambiente e a distinguerli dai propri simili e dalle altre specie.
Per rispondere alla domanda in calce possiamo fare un esempio forse a voi noto: quello del pavone.
Il pavone, infatti, ci sembra un animale particolarmente adatto ad illustrare la perfetta utilizzazione del colore nei rapporti sociali tra individui di sesso contrario.
La femmina del pavone è un animale piccolo e delicato, non eccessivamente colorato; il maschio, invece, è provvisto di un manto bellissimo che diventa straordinario ed eccezionale nelle penne della coda.
Quando questo corteggia la femmina la coda si apre in una «ruota», un sole dai mille colori lucenti con un magico occhio nel mezzo.
In questo preciso momento il pavone è un vero miracolo della natura, un animale bellissimo, consapevole, sembra, della propria bellezza, ch'egli usa come richiamo per attirare l'attenzione della femmina.
Si avvicina impettito, assumendo atteggiamenti ora fieri ora vezzosi, per imporre alla sua futura compagna la propria presenza.
Questo comportamento ci ha, tra l'altro, fornito il termine «pavoneggiarsi» riferito agli uomini che mettono in mostra la propria bellezza, proprio come fa il pavone.
Il termine però ha un senso lievemente dispregiativo poiché il colore e la bellezza vengono legittimamente ostentati dal pavone mentre l'uomo, imitando l'animale, oltre che non tener conto delle proprie prerogative umane, ostenta la sua vanità che non è certo da considerarsi una virtù.
PERCHÉ GLI ANIMALI NON PARLANO?
Oltre al pensiero, alla facoltà di utilizzare la nostra esperienza e ad una memoria prodigiosa rispetto a quella degli animali, la parola è una fondamentale prerogativa che contraddistingue l'uomo da ogni altro essere vivente.
Questa facoltà ci deriva non solo dalla particolare conformazione del nostro apparato vocale, capace di emettere una gamma abbastanza estesa di suoni, ma soprattutto dalle nostre capacità intellettuali che li regolano ed applicano in modo durevole un significato ad ogni suono.
Ma sarebbe in parte errato affermare che gli animali non parlano. Anch'essi infatti posseggono un particolare loro linguaggio, spesso assai limitato; a volte, come nei caso degli uccelli, esteso ed assai complesso.
Gli animali non parlano, dunque, nel senso che non riescono a pronunciare delle parole umane, salvo rare eccezioni. Ma ciò non vuol dire che non riescano a comunicare. La maggior parte degli animali, infatti, hanno la possibilità in rapporto alla potenza del loro apparato vocale e limitatamente alla loro specie, di capirsi.
A parte gli uccelli, di cui abbiamo già parlato, per i quali il canto ha una grande importanza nel corteggiamento e si manifesta con una straordinaria complessità, gli animali pur non riuscendo ad esprimere sentimenti complessi possono comunicare ad individui della propria specie «idee» semplici, legate alla propria comune sopravvivenza.
Così, oltre a suoni particolari nel corteggiamento, emettono suoni che esprimono timore, avvertimento, inquietudine o rabbia.
Il linguaggio degli animali è comunque ancora avvolto nel mistero, un mistero che gli uomini tentano di scoprire effettuando vari e numerosi esperimenti ma che, nonostante i risultati straordinari a cui sono giunti, forse non potranno mai svelare completamente.
PERCHÉ GLI UCCELLI COVANO LE UOVA?
Un uovo racchiude e protegge, con il suo guscio, un essere vivente che sta per venire alla luce.
La madre, e in certi casi il padre, lo covano, lo coprono cioè amorevolmente col proprio corpo affinché si schiuda. Il calore, infatti, garantisce la vitalità dell'embrione che rapidamente cresce nutrendosi delle sostanze che trova nell'uovo. Raggiunte dimensioni tali da non poter essere più contenuto nel piccolo ambiente, il nuovo individuo, più o meno completamente formato, rompe il guscio e si aggiunge alla foltissima schiera di esseri viventi che popolano il mondo.
Come si riproducono gli esseri viventi?
Potremmo paragonare la vita ad una piramide: alla base stanno esseri composti da una sola cellula che costituiscono, generalmente, la fondamentale risorsa alimentare di tutti gli altri.
Per questo il loro numero è e deve essere esorbitante e le loro capacità riproduttive eccezionali. La loro sopravvivenza, non potendo essi difendersi in alcun modo, è garantita soltanto dal numero: la velocità con cui si riproducono, infatti, assicura alla vita un numero di individui della stessa specie superiore al numero degli stessi utilizzati come cibo da tutti gli altri esseri di mole maggiore.
Generalmente, dunque, gli organismi unicellulari si riproducono per scissione, dividendosi in una o più parti che danno luogo a nuovi individui i quali, a loro volta, divenuti adulti in brevissimo tempo, continuano a scindersi.
È facilmente intuibile come questo sistema determini eccezionali risultati e come un solo essere unicellulare, entro sole 24 ore, generi un numero veramente straordinario di figli.
Salendo lungo la piramide della vita, verso la cima, aumentano le dimensioni degli esseri viventi e diminuiscono le capacità riproduttive.
La riproduzione, negli organismi composti da più cellule, non avviene più per scissione ma grazie all'incontro di sessi diversi, di un maschio con una femmina.
Il maschio possiede dei semi, la femmina delle uova. Dall'incontro del seme con l'uovo, nasce un nuovo individuo.
Abbiamo visto in precedenza come, attraverso l'impollinazione, ciò avvenga nelle piante.
Gli insetti trasportano il polline da un fiore all'altro ed esso viene a contatto con gli ovuli: da questa unione nascerà una nuova pianta.
Gli animali che possono muoversi e non hanno quindi bisogno di mezzi di trasporto per effettuare la riproduzione, cercano i propri simili di sesso opposto e fanno in modo, unendosi, che il seme del maschio fecondi l'uovo della femmina.
A questo punto, a seconda delle specie, lo sviluppo dell'embrione avviene in modi diversi. Alcuni animali abbandonano le uova al loro destino ed i piccoli, dopo che le uova si sono dischiuse, devono cavarsela da soli.
Altri invece le covano e, dopo che i piccoli sono nati, li aiutano nelle loro prime prove e non li abbandonano finché non sono perfettamente in grado di garantirsi la sopravvivenza.
Se facciamo attenzione noteremo come la cura e l'amore da parte dei genitori variano in rapporto al numero dei figli. Ciò ci riporta alla nostra ideale piramide: più alta è la capacità riproduttiva meno perfetti sono i mezzi di difesa preposti a garantire la sopravvivenza dei singoli individui.
In cima alla vetta della piramide stanno i mammiferi più complessi come l'uomo o la balena, capaci di generare un solo figlio all'anno, salvo l'eventualità abbastanza rara di un parto gemellare.
Se gli uccelli depongono molte uova in varie covate ed a proteggere i futuri piccoli non ci sono che un nido e un guscio relativamente resistente, tanto importante è un figlio per l'uomo, o per la balena, che essi non depongono neppure le uova, per paura che possano andare distrutte, ma proteggono i propri piccoli nel caldo rifugio del ventre. Essi sono capaci di portare a maturazione un solo uovo all'anno e se la natura li avesse fatti ovipari come gli uccelli, l'equilibrio delle nascite sarebbe stato turbato da troppe morti premature.
Un uovo, infatti, protetto e difeso finché si voglia, è sottoposto a troppi pericoli, dagli attacchi del caldo e del freddo alla fame degli altri animali.
Così i mammiferi hanno il potere di non deporre le uova ma di mantenere nel ventre l'uovo fecondato, di nutrire il piccolo con il proprio sangue e, non appena questo è completamente formato, di partorirlo vivo.
Quindi, come gli uccelli, dovranno curarlo perché, di solito, è del tutto inetto ed incapace: questi procurano il cibo ed imboccano i propri piccoli, i mammiferi li allattano.
Per alcune specie il piccolo nato diviene in breve tempo abile ed autosufficiente, per altre, tra cui l'uomo, occorrono invece molti anni prima che il «cucciolo» raggiunga una perfetta autonomia.
PERCHÉ IL CAMMELLO HA LE GOBBE?
Il cammello è un mammifero dalle forme sgraziate, alto anche più di due metri, con due strane gobbe sul dorso, i piedi con due sole dita il cui insieme forma un largo cuscinetto adatto alla locomozione nella sabbia È scherzosamente chiamato «la nave del deserto» poiché è un animale utilissimo nelle zone aride, capace di tollerare temperature eccezionali sia calde che fredde, forte, resistente oltre che alla fatica soprattutto alla fame ed alla sete.
Le pareti del suo stomaco (rumine) recano numerose «celle acquifere», borse in cui si accumula acqua proveniente dai processi metabolici dell'organismo (e non da quella ingerita, come si potrebbe pensare).
Si nutre delle piante delle steppe e quando il cibo scarseggia consuma il grasso di cui son fatte le proprie gobbe.
Queste, dunque, non sono altro che depositi di sostanze nutrienti a cui questo animale, votato ad un'esistenza di privazioni e di rinunce, attinge con parsimoniosa oculatezza per garantirsi la sopravvivenza.
Il cammello è proprio dell'Asia orientale e centrale (Turkestan, Manciuria, Cina) e, anche se nel deserto di Gobi vivono mandrie rinselvatichite, fu addomesticato almeno dieci secoli prima dell'avvento di Cristo.
Oltre che come animale da soma, da tiro e da sella viene utilizzato per la lana, la carne e il latte.
Affini al cammello sono il dromedario che ha una sola gobba e il lama sudamericano, più piccolo e del tutto privo di gobbe.
Un esemplare di cammello
PERCHÉ IL GATTO HA I BAFFI?
Abbiamo già detto che il gatto, addomesticato ormai da molti secoli, appartiene alla poderosa e temibile famiglia dei felini, ed è parente più o meno prossimo di leoni, tigri e simili.
Dei suoi feroci consanguinei possiede certe caratteristiche quali l'agilità e la fierezza, oltre ai denti lunghi ed aguzzi ed agli artigli retrattili. Sappiamo che, grazie alle sue antiche origini medio-orientali, predilige il caldo al cui tepore gode facendo le fusa, il «ron-ron» caratteristico, simile al rumore del fuso che gira.
Ma la nostra attenzione è in questo momento attratta dai suoi lunghi ed irti baffi che partono a raggiera dai lati del suo musetto.
È interessante sapere che questi baffi non sono soltanto decorativi e non sono neanche dei semplici peli come quelli folti e morbidi che gli rivestono il corpo.
Essi si chiamano propriamente «vibrisse» ed hanno proprietà tattili. Infatti il loro bulbo è collegato con molti centri sensori e un gran numero di vasi sanguigni per cui le vibrisse sono assai sensibili al più lieve contatto.
Peli tattili come le vibrisse esistono anche in altri animali e sono dislocati in varie parti del corpo. Nell'uomo, ad esempio, sono nelle pareti interne del naso.
PERCHÉ IL BUE MASTICA SEMPRE?
Il bue, con la pecora, il cammello, il bisonte ed altri animali appartiene alla famiglia dei «ruminanti».
I ruminanti sono animali che masticano in continuazione, sia quando raccolgono il cibo, sia quando sono in riposo o lavorano. Se osservate un ruminante al Pascolo lo vedrete raccogliere con velocità incredibile erba, radici, fogliame, gemme e muschi e inghiottire tutto con altrettanta rapidità.
Quando giunge nella stalla o nell'ovile dove non ha più niente da mangiare lo vedrete sempre masticare a lungo con tenacia e meticolosità.
Come si spiega questo fatto straordinario?
Il ruminante ha una dentatura caratteristica, formata da sei incisivi e due canini, tutti della stessa forma a «spatola», che si trovano soltanto nella mascella inferiore: solo i molari spuntano anche dalla mascella superiore.
Questo tipo di dentatura gli permette di strappare le erbe di tritarle molto grossolanamente e quindi di inghiottirle quasi intere.
Lo stomaco dei ruminanti è veramente unico ed è formato addirittura da quattro sacche: il rumine, il reticolo, l'omaso e l'abomaso.
Il cibo masticato grossolanamente e inghiottito con rapidità scende nel rumine che funge da serbatoio e da questo passa nel reticolo; qui subisce le prime sommarie trasformazioni, si ammorbidisce, si accumula in pallottole e torna in bocca. Qui, grazie ai movimenti laterali della mandibola e ai denti che lavorano come le mole di una macina, il cibo viene finemente maciullato e reso quasi liquido dall'abbondante saliva.
Inghiottito nuovamente non cade più nel rumine ma scorre direttamente nell'omaso, dove viene trattenuto per poco; quindi passa nell'abomaso, il vero e proprio stomaco ed infine nell'intestino in cui finisce d'essere assimilato.
PERCHÉ LA GIRAFFA HA IL COLLO LUNGO?
Esistono varie specie di giraffe ma sono talmente simili che si possono riunire in un'unica famiglia. Esse appartengono all'ordine degli «ungulati» ed hanno un corpo altissimo ed un collo assai lungo. È impossibile stabilire il momento in cui una specie animale ha assunto l'aspetto che noi oggi conosciamo ed è quindi altrettanto impossibile stabilire quando la giraffa abbia assunto il caratteristico aspetto che la contraddistingue.
Né è possibile dire se la sua forma sia il risultato di certe abitudini o se queste abitudini siano conseguenza della sua forma.
Oggi esse vivono nell'Africa Centrale in branchi al comando di un maschio e si nutrono prevalentemente di foglie e di rami che strappano con la lingua dalla cima degli alberi pur non disdegnando l'erba delle praterie.
È presumibile, dunque, che in un certo periodo della loro esistenza, durato centinaia di migliaia di anni, la necessità di doversi nutrire cogliendo il cibo nelle parti più alte degli alberi, abbia determinato un progressivo allungamento del collo. Il fatto di possedere un collo tanto lungo, tuttavia, costituisce un ostacolo non indifferente per le giraffe che trovano cosa assai disagevole chinarsi per mangiare erba o per bere dai ruscelli e sono costrette a risolvere il problema divaricando le zampe anteriori.
Le giraffe quando corrono muovono contemporaneamente le zampe anteriori e quelle posteriori dello stesso lato del corpo: ciò conferisce loro una particolare andatura simile a quella dei cammelli, con i quali hanno in comune anche una buona resistenza alla sete.
Un esemplare di giraffa
PERCHÉ I PESCECANI ATTACCANO L'UOMO?
Gli squali appartengono all'ordine dei Selaci insieme alle razze e alle torpedini. Hanno scheletro cartilagineo, pelle nuda e spesso scabrosa. Le branchie si aprono sui lati del corpo o inferiormente con fessure distinte.
Si conoscono moltissime specie di squali, dalle dimensioni più varie, di cui alcune attaccano l'uomo. Intorno ai pescecani circolano numerosissime leggende spesso assai contrastanti fra loro e ciò dimostra come l'indole dei pescecani sia ben strana e come noi non possediamo notizie esatte e definitive intorno al loro comportamento. Si dice, ad esempio, che i pescecani siano quasi ciechi mentre invece indagini recenti sembrano aver stabilito che ci vedono benissimo.
Altre leggende parlano della loro voracità insaziabile e sono dovute al fatto che i pescecani mangiano di tutto e che per questa loro proprietà sono chiamati «gli spazzini del mare».
In virtù del loro strano comportamento accade spesso di udire consigli contrastanti sul come salvarsi in mare dall'attacco di un pescecane. C'è chi dice che bisogna testar fermi, immobili, sperando che il pescecane non ci veda; altri dicono invece che bisogna nuotare in fretta e far più baccano possibile con la speranza che il pescecane si spaventi e fugga.
Noi pensiamo invece che essendo attaccati da un pescecane l'unica cosa che ci resti da fare è quella di nuotare verso un luogo sicuro con la maggior tranquillità possibile senza mostrare il terrore che ci anima e sperare che il pescecane non ci attacchi.
Infatti può capitare che il terribile squalo ci lasci in pace, come è spesso successo.
Nei suoi attacchi contro l'uomo il pescecane non finirà mai, probabilmente, di stupirci poiché sembra che i suoi assalti siano rivolti verso particolari individui, se vogliamo ritenere valida la interpretazione data ad un particolare episodio avvenuto sulle coste dell'Australia.
Un pescecane azzannò un bagnante che chiamò aiuto. I soccorsi giunsero immediatamente e il malcapitato fu issato a bordo di un canotto con una gamba sanguinante. Il sangue, come avviene di solito, tramuta in vera follia la proverbiale fame del pescecane: lo squalo, come impazzito, con una poderosa testata rovesciò il battello con tutti i suoi occupanti. Nel conseguente marasma il pescecane avrebbe potuto azzannare ognuno dei soccorritori, mentre invece si accanì sul ferito, proprio come se avesse un conto personale da regolare con lui.
Questa potrebbe essere considerata una disgraziata e fatale coincidenza, ma coincidenze simili sono ormai avvenute troppo spesso; ed è anche vero che certi episodi sembrano smentire le sopraccitate affermazioni tanto che, in tutta sincerità, pensiamo che il comportamento dei pescecani nei confronti dell'uomo è quanto di più imprevedibile ci sia al mondo.
PERCHÉ È FACILE ADDOMESTICARE I DELFINI?
Frequentemente ci è dato di vedere in acquari o negli zoo, dei delfini in ampie vasche, effettuare agli ordini di un ammaestratore, i più straordinari esercizi.
Molto spesso ci siamo chiesti perché sia tanto facile, almeno in apparenza, ammaestrare i delfini ed ottenere da loro risultati così strabilianti.
Il mare possiede degli abitanti dall'indole più varia, pesci timidi che si nascondono e si mimetizzano, pesci voraci che fanno strage dei pesci più piccoli, pesci feroci e crudeli che osano attaccare anche l'uomo.
Tra tutti gli abitanti del mare eccelle il delfino, un mammifero assai intelligente, incline a considerare l'uomo non un pericoloso nemico o addirittura l'oggetto di un pasto succulento, ma un essere parimenti intelligente che abita la terra, con cui poter convivere in piena armonia.
L'amicizia tra l'uomo e il delfino risale a tempi antichissimi. Scrive lo storico greco Plutarco: «Il delfino è l'unico animale che ami l'uomo per se stesso, che provi per lui un'amicizia disinteressata».
In tutta la storia dell'uomo, il delfino compare spesso come un provvidenziale salvatore ed è stato più volte raffigurato nelle monete, nelle medaglie, nei vasi, nelle anfore e così via, come simbolo della tranquillità del mare.
Questo gioioso simpaticone ha veramente saldato nei secoli, in virtù della sua intelligenza e della sua indole bonaria, l'amicizia che lo lega all'uomo. Sembra quasi che, per le sue capacità intellettive che lo differenziano notevolmente dagli altri abitanti del mare, sia portato a considerarsi più vicino all'uomo che non ai suoi simili e quindi a ricercare la sua amicizia, la sua compagnia e ad intervenire in suo aiuto quando egli si trova in difficoltà.
Non è raro udire storie di delfini che salvano uomini che stanno per affogare o che interrompono l'attacco di un pescecane, uccidendolo o mettendolo in fuga.
L'uomo, da parte sua, dopo tante prove di amicizia, ha cercato di approfondire la conoscenza di questo suo meraviglioso alleato marino.
Che cosa non ha scoperto! Un cervello sviluppatissimo rende il delfino capace di apprendere con rapidità sì che lo possiamo vedere negli acquari compiere con elegante maestria i più difficili esercizi.
La sua indole fiduciosa lo spinge ad avvicinare tutti gli uomini ed a concedere loro una benevole simpatia.
Veramente sorprendente è il suo senso dell'umorismo. Una volta uno scienziato stava compiendo degli studi sulla voce di un delfino che girava nella sua vasca con un microfono legato al collo, silenzioso e sordo ad ogni richiamo del maestro che lo spingeva a parlare. Ad un tratto lo scienziato, persa la pazienza, gli lanciò contro una lunga sequela di improperi.
Immaginate la sua sorpresa quando sentì il delfino imitare alla perfezione il tono iroso dei suoi insulti!
La «voce» esce da un'unica narice, una mezzaluna posta sulla sommità del capo attraverso la quale il delfino respira e che si richiude non appena si immerge.
Ha gli occhi simili a quelli dell'uomo, un udito finissimo, superiore a quello di ogni altro animale. Può restare immerso sei minuti in apnea, nuotare alla velocità di trenta miglia orarie, localizzare banchi di pesce a distanze notevolissime con il più perfetto impianto «sonar» esistente al mondo, selezionare gli impulsi di ritorno e stabilire la specie intercettata.
Ma ciò che ci affascina di più è la capacità dei delfini di vivere in perfetto accordo. Quando una femmina partorisce, un'altra corre in suo aiuto per difenderla dall'attacco dei pescecani.
Se un delfino viene attaccato dai pescecani fischia in cerca di aiuto: in men che non si dica questo gli viene offerto da alcuni compagni che, a turno, sapientemente, martellano il nemico con testate allo stomaco e sulle branchie, uccidendolo.
Quando localizzano un branco di pesci, i delfini lo accerchiano e, come dei perfetti cow-boys, lo spingono a ridosso delle rocce in una insenatura. Poi, uno alla volta, in perfetto accordo, escono dallo schieramento e si nutrono a sazietà.
PERCHÉ LE ZANZARE PUNGONO?
La zanzara è un piccolo insetto dal corpo sottile e snello a tutti noto per le fastidiose punture che infligge nella stagione calda. Appartiene all'ordine dei Ditteri, depone le sue uova nell'acqua ed ha larve e ninfe acquatiche.
Il suo «habitat» preferito sono dunque le immediate vicinanze delle paludi, delle risaie, degli acquitrini in genere. In essi le larve in via di trasformazione trovano nutrimento abbondante nell'insieme di detriti organici e di plancton lacustre.
I maschi differiscono dalle femmine per una diversa conformazione degli organi buccali.
Il maschio infatti si nutre delle sostanze zuccherine dei fiori, mentre la femmina è una vorace succhiatrice di sangue: tra le sue vittime preferisce i mammiferi, quindi i rettili, gli uccelli e... sembra anche certe specie di pesci.
Per questo la femmina è munita di una «proboscide» con la quale perfora l'epidermide fino a raggiungere un vaso sanguigno. Contemporaneamente, attraverso un apposito tubicino, inietta nella ferita un succo anticoagulante che le permette di succhiare il sangue in tutta tranquillità.
L'irritazione propria delle sue punture è dovuta a questa sua speciale saliva.
Alcune specie di zanzare, nell'esercitare questa loro fastidiosa abitudine, possono essere un pericoloso veicolo di trasmissione di germi e di parassiti.
Tristemente nota è una malattia che infestava, fino a pochi anni or sono, le zone paludose: la malaria. Era proprio la femmina di una specie di zanzara, l'anofele, a diffondere il contagio suggendo sangue infetto ed inoculandolo in soggetti sani.
Perché, dunque, la zanzara per vivere ha bisogno di effettuare sugli altri simili salassi?
Dopo aver appurato che è solo la femmina che punge, la risposta è piuttosto semplice: perché con il sangue che succhia, oltre che nutrire se stessa, nutre le sue uova.
PERCHÉ I GRILLI FANNO «CRI-CRI»?
I grilli appartengono all'ordine degli «Ortotteri» alla famiglia dei «grillidi»: una famiglia canora che allieta le notti d'estate.
A che cosa è dovuto quel loro monotono ed incessante «crì-crì»?
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre questo loro canto non scaturisce dalla loro gola ma proviene da un rivestimento durissimo e seghettato che serve a proteggere le ali e l'addome.
Nascosto nell'erba il grillo, per chiamare a sé la compagna, sfrega insieme le due «elitre» e l'attrito prodotto dallo sfregamento delle «elitre» contro la corazza produce il «crì-crì» caratteristico.
Tra i grilli solo i maschi hanno il privilegio di cantare e l'emissione di tale suono varia a seconda del variare della temperatura: più fa caldo più aumenta l'intensità e la frequenza del canto. Il canto dei grilli ha dato origine a molte leggende di cui la più universalmente nota è queLla secondo cui il focolare presso il quale si ode il canto di un grillo è protetto da ogni maleficio. Vi sono varie specie di grilli: quello domestico di color giallo bruno il cui «frinire» è monotono e prolungato; il grillo delle campagne, nero e lucido ed infine una terza specie, divoratrice di trifoglio e di grano, che i contadini combattono tenacemente.
PERCHÉ CERTI ANIMALI VEDONO AL BUIO?
Noi uomini, insieme a moltissime altre specie di animali, ci sentiamo sopraffatti, sconfitti al sopraggiungere delle tenebre. Il buio per noi rappresenta l'ignoto e preferiamo ritirarci al sicuro dove i nostri occhi possano darci la misura di tutto ciò che ci circonda; eppure esistono al mondo degli animali che riescono a vedere al buio!
Certe specie di rapaci, i felini, gran parte degli animali notturni hanno degli occhi capaci di fornire loro le immagini degli oggetti là dove per noi non esiste che buio.
Occorre subito premettere che l'oscurità della notte, per noi comunque inaccessibile, è pervasa da incerti chiarori, da tenui luminescenze, quantità di luce insufficienti per i nostri occhi abituati alla luce diurna, ma sufficienti per gli occhi degli animali notturni che possiedono la singolare proprietà di dilatarsi oltre misura.
Parlando dell'occhio abbiamo visto come la visione dipenda, oltre che dalla retina che possiede coni e bastoncini i quali effettuano i procedimenti fotochimici e consentono la formazione dell'immagine, dal cristallino che, come una lente, proietta l'immagine degli oggetti sulla retina. I nostri occhi, adatti per la luce diurna, presentano un cristallino relativamente dilatabile, adatto a ricevere radiazioni luminose di notevole intensità. Negli animali notturni, nel gatto, ad esempio, il cristallino ha un potere di dilatazione enorme e può così raccogliere stimoli luminosi anche se di scarsa intensità.
PERCHÉ IL PIPISTRELLO DORME CON LA TESTA IN GIU'?
Il pipistrello è un animale assai interessante ingiustamente esecrato dalla tradizione. Molte leggende circolano sul suo conto dovute soprattutto ad una specie, quella dei vampiri, a cui si dice piaccia succhiare il sangue caldo dei mammiferi. Per la tradizione popolare essi rappresentano esseri ambigui, un po' topi, un po' uccelli, probabili affiliati del demonio.
In realtà tutto ciò non ha alcun fondamento poiché la loro presunta parentela con i topi è basata su una discutibile rassomiglianza esteriore e del tutto arbitrario è il paragone con gli uccelli. Essi infatti sono dei mammiferi con arti posteriori ed anteriori molto sviluppati. Le cinque dita degli arti anteriori sono lunghissime e ricoperte da una membrana che abbraccia tutto il corpo, fino alle zampe, di cui restano fuori solo i piedi fortemente ungulati.
Questa membrana, detta «patagio», funge da ala e gli permette di volare.
Ha vista scarsa ma udito finissimo. È un gran divoratore di insetti ed esce in caccia al crepuscolo, preferendo nascondersi di giorno nelle grotte o nel cavo degli alberi. La smisurata ampiezza delle sue «ali» non gli permette di posarsi a terra (non potendo poi riprendere il volo) e a ciò è probabilmente dovuta l'abitudine di dormire appeso alle zampe posteriori nelle parti più alte ed inaccessibili delle grotte, oltre che ad un comprensibile desiderio di sicurezza.
Ma il pipistrello è un animale interessantissimo per una sua straordinaria particolarità, quella di poter volare velocemente, nonostante la scarsa vista, evitando agevolmente ogni ostacolo. Ciò è dovuto ad un impianto radar situato in prossimità delle narici. Costantemente, quando è in volo, da certe verruche egli lancia in ogni direzione delle grida ad altissima frequenza, per noi impercettibili, dette «ultrasuoni». Essi battono sugli ostacoli e ritornano velocemente al luogo di emissione, vengono selezionati e grazie a loro il pipistrello ha la possibilità di individuare gli ostacoli nella loro natura, dimensione e forma precise.
PERCHÉ MOLTI ANIMALI SONO A SANGUE FREDDO?
Tutti gli animali, tranne gli uccelli e i mammiferi, sono a «sangue freddo».
Ciò significa forse che il loro sangue ha una bassa temperatura?
No! Ciò significa invece che la temperatura del loro corpo si uniforma alla temperatura esterna.
I mammiferi e gli uccelli sono provvisti di un organo situato nel cervello che serve a regolare la produzione di calore.
Quando l'aria fredda investe la pelle, i nervi trasmettono la sensazione al midollo spinale che informa il cervello; questo registra l'informazione, manda un impulso ai muscoli, i quali provocano l'erezione dei peli e la contrazione dei vasi sanguigni aumentando contemporaneamente l'afflusso del sangue in superficie.
Ecco perché gli animali d'inverno gonfiano la pelliccia o il piumaggio: per meglio isolarsi dal freddo esterno. In una parola, mammiferi ed uccelli, detti animali «a sangue caldo», contrariamente a tutti gli altri, reagiscono alla temperatura esterna, mantenendo pressoché costante quella del proprio corpo.
Gli animali a sangue freddo, invece, che non dispongono di quel complesso meccanismo regolatore della temperatura, sono in balia delle stagioni, del caldo e del freddo eccessivi.
Se una rana o un serpente da una temperatura di 20 gradi si portano ad una temperatura di 10 gradi i loro processi vitali diminuiscono rapidamente insieme ai loro movimenti finché in meno di 5 minuti la loro temperatura corporea è scesa a 10 gradi. Ciò spiega come il freddo limiti in questi animali le attività vitali e come i rigori dell'inverno determinino la caratteristica caduta in letargo.
PERCHÉ LA MANTIDE È CHIAMATA «RELIGIOSA»?
La mantide è un insetto predatore fra i più voraci e sotto questo aspetto l'appellativo di «religiosa» è veramente fuori luogo!
Tutti gli animali, dai più grandi ai più piccoli, posseggono armi di difesa e di attacco ma le usano di solito contro individui di altra specie, rispettando i propri simili.
La mantide, invece, non tiene in nessun conto il sentimento (del tutto umano, in verità) di fratellanza, poiché per soddisfare la sua smodata voracità non disdegna di nutrirsi dei propri simili.
Queste manifestazioni «cannibalesche» si rivelano fin dalla sua nascita: pensate che le larve, appena uscite dalle uova, si rivolgono le une contro le altre per divorarsi. La natura ha risolto il problema facendo schiudere le uova tutte nello stesso momento così che i nuovi nati possano, appena fuori dal guscio, tagliare la corda ed evitare la pericolosa compagnia dei propri fratelli.
Detto che la mantide non è un animale pio, perché la chiamano «religiosa?» Questo appellativo è dovuto alla posizione ch'essa assume in riposo: la parte anteriore è eretta e le zampe anteriori, provviste di forti spine, riunite in atteggiamento di preghiera.
La mantide, dunque, aspetta e... prega; muove solo la testa, ora da una parte ora dall'altra e, all'avvicinarsi della preda, le sue mani giunte scattano in avanti e l'afferrano. Per il malcapitato insetto non c'è più niente da fare; impossibile sfuggire a quelle robuste zampe spinose!
I maschi sono insetti battaglieri, lottano tra loro sovente e il vincitore oltre alla palma della vittoria ha in appannaggio la salma del vinto con la quale pasteggia tranquillamente.
La femmina però è assai più crudele: dopo l'accoppiamento che precede la riproduzione divora il maschio. Voi tutti sapete che esistono, in varie parti del mondo, degli allevamenti di galli da combattimento e che questo «sport» è, se pur crudele, abbastanza seguito: ebbene, in Oriente, si vendono coppie di mantidi in gabbia... e si scommette su quale delle due riuscirà a divorare l'altra.
Questa loro insana abitudine viene utilizzata da alcuni coltivatori che acquistano interi grappoli di uova di mantide fidando nella loro voracità per sterminare gli insetti che danneggiano le piante.
Esemplare di mantide religiosa
PERCHÉ LE TERMITI POSSONO DIGERIRE IL LEGNO?
Le Termiti, dette anche «formiche bianche» per una vaga somiglianza con le formiche ma soprattutto per una notevole attività che riguarda l'organizzazione sociale, appartengono all'ordine degli Architteri, lo stesso ordine a cui appartengono le libellule.
Le Termiti hanno un'abitudine curiosa, quella di nutrirsi quasi esclusivamente della cellulosa del legno e della carta. È un po' difficile da digerire, non vi pare?
Eppure esse mangiano il legno con celerità incredibile: nelle abitazioni divorano tutte le parti in legno tranne un sottile strato esterno.
Se non si riesce a fermarle in tempo e a bloccare la loro azione distruttiva, l'edificio crolla in men che non si dica!
Come fanno a digerire la cellulosa di cui è costituito il legno?
Devono ciò a microscopiche creature che vivono nel loro intestino, piccolissimi protozoi che trasformano la cellulosa in sostanze per loro assimilabili.
Le Termiti sono, perciò, un vero e proprio flagello ma, come tutte le creature di questo mondo, compiono anch'esse la loro utile funzione divorando alberi morti e in via di putrefazione, trasformandoli in sostanze utili per il terreno le quali a loro volta vengono assorbite da altre piante, contribuendo così al determinarsi dell'eterno ciclo biologico della Natura.
PERCHÉ I SERPENTI SI «INCANTANO»?
Dall'Oriente ci giungono immagini, ai nostri occhi straordinarie, di uomini dalle virtù magiche, capaci addirittura di «incantare» i serpenti! Come può essere possibile, come può un uomo giocare con l'infido cobra, capace non solo di mordere con i denti aguzzi ma anche di lanciare il veleno potentissimo ad una notevole distanza mirando deliberatamente agli occhi?
Sapendo poi che i serpenti non hanno padiglioni auricolari, sono sordi, cioè, come è possibile che si sollevino lentamente dal cesto di vimini e danzino al ritmo della musica vellutata suonata dal flauto?
Penetriamo nella realtà di questo avvenimento per noi così affascinante. Quando l'incantatore apre la cesta di vimini contenente il cobra, il serpente è spinto ad uscire, alla vista della luce.
Ma, appena spunta con la testa all'aperto, che cosa trova? Un uomo con uno strano oggetto tra le labbra che lo fissa e ondeggia ritmicamente. Il cobra, avvinto da quegli ondeggiamenti, dapprima ne resta affascinato e li osserva immobile quindi prende a danzare, seguendo i movimenti del corpo dell'uomo.
Fantastico! Se credevamo i serpenti capaci, in virtù del loro sguardo vitreo ed ammaliatore, di ipnotizzare un uomo, ricrediamoci! L'incantatore di serpenti ci dimostra che se anche ciò fosse possibile, potremmo combatterlo con le sue stesse armi e addirittura vincerlo!
PERCHÉ GLI UCCELLI POSSONO DORMIRE SUI RAMI SENZA CADERE?
Il volo per gli uccelli, oltre ad essere una caratteristica peculiare della specie, presenta un vantaggio notevole: per gli animali che non hanno ali, infatti, un uccello che vola è irraggiungibile. Gli uccelli, dunque, devono guardarsi, in volo, solo dagli altri uccelli, specialmente dai Rapaci. Quando dormono, invece, essendo costretti a posarsi, diventano preda anche degli altri animali.
Per limitare il pericolo hanno perciò sviluppato una curiosa capacità, quella di dormire sui rami senza cadere. Essi posseggono un istintivo senso dell'equilibrio, senso in azione anche durante il sonno, che consente loro di mantenere una posizione tale che il peso del corpo sia costantemente ed ugualmente distribuito da una parte e dall'altra del ramo, evitando così il rischio di una caduta.
PERCHÉ L'ESISTENZA DEGLI ESSERI VIVENTI NON HA LA STESSA DURATA?
Tutti gli esseri viventi, animali o vegetali, nascono, crescono, si riproducono e muoiono in un lasso di tempo che va da pochi minuti, per certi batteri, ai mille anni di una sequoia gigante.
Che cosa determina questa enorme differenza di durata della vita? Il fatto sembra seguire una legge ben precisa che vuole che gli esseri viventi vivano tanto più a lungo quanto più lento è il loro sviluppo. Tutte le creature hanno origine sempre e soltanto da altre creature, usufruiscono di un insieme di organi armonicamente collegati come le parti di un perfetto meccanismo, costruiscono e mantengono in vita il proprio corpo attingendo sostanze dal mondo esterno ed infine non sono perenni ma destinate a scomparire dopo aver percorso le varie fasi del loro ciclo vitale e soprattutto dopo aver garantito, con la riproduzione, la continuazione della specie. Il fatto che la durata della vita dipenda dalla lentezza e dalla complessità dello sviluppo degli individui appartenenti ad una determinata specie, è dimostrato, ad esempio, da molti insetti che muoiono non appena, diventati adulti, hanno effettuato la riproduzione; oppure da certi batteri della putrefazione che nascono, si moltiplicano e muoiono in appena 20-30 minuti. Più lento è lo sviluppo dell'uomo la cui esistenza può toccare i cento anni: egli può vivere tanto a lungo poiché per diventare adulto impiega circa venti anni.
Lunga vita hanno perciò il cigno (102 anni), l'elefante (70 anni) e la tartaruga delle Galapagos (120 anni). Di sviluppo e di morte precoce sono ad esempio il topo (4 anni) e la lumaca (5 anni). Naturalmente quando parliamo di età massima raggiunta dagli animali ci riferiamo ad animali tenuti in cattività poiché, allo stato libero, pochi sono coloro che muoiono di vecchiaia, mentre più spesso soccombono in seguito a malattie o vittime di altri animali più forti.
È interessante anche notare che non esiste proporzione fra età e dimensione: il granoturco ed il girasole, ad esempio, che sono piante molto alte, vivono solo un anno, mentre certi arbusti nani delle alpi, alti appena pochi centimetri, riescono a vivere più a lungo.
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¦ DURATA MASSIMA DELLA VITA ¦
¦ DI ALCUNI ESSERI VIVENTI ¦
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¦ Batteri = 30 minuti ¦
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¦ Topo = 4 anni ¦
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¦ Lumaca = 5 anni ¦
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¦ Cane = 15 anni ¦
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¦ Balena = 50 anni ¦
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¦ Elefante = 70 anni ¦
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¦ Uomo = 100 anni ¦
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¦ Cigno = 102 anni ¦
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¦ Tartaruga = 120 anni ¦
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¦ Falcone = 162 anni ¦
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PERCHÉ VI SONO ANIMALI SENZA OCCHI?
Abbiamo visto come le diverse specie di animali si siano scelte nel corso dei secoli un luogo dove vivere, un habitat, cioè, in cui hanno trovato le condizioni più favorevoli per poter vivere.
L'habitat degli animali che popolano la Terra può essere marino, terrestre, aereo, abissale e sotterraneo.
Le specie che hanno scelto di vivere negli abissi del mare o nell'oscura profondità delle grotte presentano caratteristiche che l'inclemenza e la eccezionalità dei luoghi hanno reso ai nostri occhi mostruose.
La prima e più evidente «mostruosità» si riferisce ai loro occhi, in alcuni casi grandissimi e sporgenti, in altri del tutto inesistenti.
Vivendo in luoghi dove i raggi solari non possono giungere, quelli che hanno gli occhi li usano come dei telescopi per utilizzare la fioca luce emessa da loro stessi o da altri animali.
Sono essi in prevalenza pesci abissali che si nutrono, mancando la vita vegetale, gli uni degli altri e di tutto ciò che piove dall'alto.
Nelle medesime ristrettezze vivono gli animali cavernicoli. Data la scarsità di cibo che essi hanno a disposizione (foglie secche, detriti, muffe) sono più piccoli di quelli affini che vivono alla luce, sono in prevalenza bianchi e ciechi: gli occhi sono tanto atrofizzati da apparire come due piccoli punti neri sotto la pelle.
Un esempio di fauna cavernicola è il Proteo che vive nelle acque delle grotte del Carso. È lungo appena 25 centimetri, possiede un corpo diafano bianco rosato, fugge la luce ed il tepore e se ne sta ancorato sul fondo delle gelide acque sotterranee.
A volte capita di trovarne nella campagna allorché una pioggia torrenziale alza il livello delle acque sotterranee facendole sgorgare e scorrere in superficie.
PERCHÉ I GECHI RESTANO APPESI AL SOFFITTO SENZA CADERE?
I Gechi sono rettili sauri di piccole dimensioni, diffusi in quasi tutte le parti del mondo.
Alcune specie vivono nelle case e si aggirano sui muri e sui soffitti, specialmente intorno alle lampade, a caccia di insetti.
Anche in Italia sono molto noti soprattutto nelle regioni bagnate dal mare.
Possiamo vederli correre veloci lungo le pareti o sostare sul soffitto, anche il più levigato, capovolti, con la stessa facilità con cui noi poggiamo i piedi a terra.
A che cosa devono questa loro straordinaria capacità? Essi posseggono quattro zampe con cinque dita. Sotto le dita si trovano dei cuscinetti costituiti da piccolissime cellule uncinate che si aggrappano anche alla più piccola irregolarità di qualsiasi superficie.
La maggior parte di questi animali sono attivi solo di notte. Alcuni hanno la capacità di emettere suoni diversi che assomigliano ora a pigolii, ora a gracidii, ora addirittura a latrati: per questo in varie parti del mondo vengono chiamati con un nome che rievoca il verso che fanno.
A volte si possono trovare dei Gechi con due code ma non si deve pensare che essi appartengano ad una particolare specie. Spesso il Geco, quando un nemico lo prende per la coda, si mutila volontariamente; in seguito la coda, che in tutti si può rigenerare, in alcuni casi può crescere biforcuta.
I Gechi sono animali del tutto innocui e potremmo anche dire simpatici, nonostante l'ingiustificata repulsione e timore che incutono.
PERCHÉ I CANGURI HANNO UNA BORSA SUL VENTRE?
I canguri appartengono all'ordine dei marsupiali, una specie di animali molto antica che popola prevalentemente i territori australiani. I canguri sono animali assai caratteristici, dalle lunghe e grosse zampe posteriori e dalle zampe anteriori piccole e corte che assomigliano a grossi topi saltellanti.
Interessante ci sembra ricordare la curiosa origine del loro nome. Esso è dovuto al primo esploratore che sbarcò in Australia, James Cook (1770) che, incuriosito da questi strani e mastodontici topi, ne chiese il nome a degli aborigeni. Questi nella loro lingua risposero «can-ga-ru» cioè «non comprendiamo». Da quel giorno quegli straordinari animali si chiamarono canguri. Notevole in essi non solo è la loro capacità di compiere salti di quattro o cinque metri, ma anche e soprattutto una particolarità che ha dato il nome all'intera specie: il marsupio.
Il marsupio è una tasca cutanea, una porzione di pelle, cioè, che cresce sul ventre della femmina a guisa di borsa sorretta dalle ossa epipubiche o marsupiali.
Perché dunque le femmine hanno questa borsa sul ventre? Per proteggere e curare i piccoli finché non siano in grado di essere completamente autonomi.
I piccoli canguri infatti, quando nascono, sono del tutto ciechi, con il corpo del tutto privo di pelame, nudi quindi e completamente indifesi tanto che non potrebbero sopravvivere in libertà.
Appena nati restano nel marsupio attaccati con le unghie al pelo materno e con la bocca perennemente aderente alle mammelle, anch'esse poste nel marsupio, le quali spremono da sole il latte risparmiando ai piccoli anche la fatica di succhiare, tanto essi sono inetti.
Nel marsupio dunque si completa la gestazione dei piccoli canguri che ne escono solo quando sono completamente formati e in grado di cavarsela da soli.
PERCHÉ LE ANGUILLE MIGRANO?
Se ci immergessimo idealmente nel mare potremmo renderci conto che esso è come un intricato labirinto, un groviglio incredibile di strade invisibili percorse dagli abitanti marini verso direzioni a noi sconosciute.
Pesci solitari, pesci a frotte, banchi composti da migliaia di individui nuotano in ogni direzione. Dove vanno? C'è chi si dirige verso migliori pasture, chi invece non si allontana troppo dalla sua tana, chi scende verso il fondo, chi sale verso la superficie. Ci sono poi branchi che, procedendo a velocità costante, camminano in colonna senza fermarsi: sembra quasi che il loro destino sia quello di vagare in eterno: ecco, venuti da lontano si allontanano, scompaiono, chissà dove... Nella massa uniforme dell'acqua, per noi tutta uguale, vi sono segnate, tuttavia, strade che i nostri occhi non potranno mai scorgere, le strade percorse da questi branchi nelle loro periodiche migrazioni.
Una volta di più la natura ci stupisce. Quale oscuro istinto spinge queste creature a compiere cammini tortuosi e difficili, lunghi e pericolosi? Un vero miracolo della natura ci viene rivelato seguendo le anguille nelle loro migrazioni periodiche.
Le anguille adulte partono dalle coste americane e da quelle europee e giungono in un piccolo specchio d'acqua nel mar dei Sargassi, presso le Bermude. Qui, tra le alghe galleggianti, si riproducono e muoiono subito dopo. Le uova, nascoste e protette dai sargassi, si dischiudono e le larve affidano i loro primi passi alla corrente del golfo. Le larve sono piccole anguille trasparenti chiamate leptocefali.
Un grandioso esercito viene per un certo tratto trasportato dalla «Corrente del Golfo» e quindi miracolosamente, si divide in due schiere: le anguille nate da madre americana si dirigono verso le coste americane per giungervi dopo un viaggio di sei mesi, quelle nate da madre europea si dirigono verso la foce di fiumi europei e vi giungono dopo tre anni. Qui le attendono i pescatori per riempire le reti e, poiché esse non sono ancora adulte, i pescatori le chiamano «cieche», sebbene ci vedano benissimo.
Se riescono a scampare al pericolo delle reti, risalgono i fiumi ed ingrassano. Dopo sette anni seguendo l'impulso lanciato da qualche misterioso orologio partono di nuovo per ritornare là dove sono nate, per riprodursi e morire.
PERCHÉ GRAN PARTE DELLE CONCHIGLIE HANNO UNA FORMA A SPIRALE?
Cercare e collezionare conchiglie è un passatempo caro a tutti i bambini. Fin dai tempi più antichi le conchiglie, per la bellezza delle loro forme e dei loro colori, sono state usate come ornamento.
La conchiglia è la casa dei molluschi, animali prevalentemente marini che, a causa della loro nudità indifesa, hanno imparato a produrre, tramite sostanze secrete dalla superficie esterna della loro pelle, una conchiglia calcarea che come una corazza li difende dagli attacchi dei pesci.
Il guscio inizialmente ha l'aspetto di un tubo o di una piastra conica che in certe specie resta tale pur raggiungendo dimensioni notevoli.
Altre invece sembrano essersi sbizzarrite nel dare alle loro casette forme più evolute, come appunto quelle a spirale.
Queste specie di conchiglie inizialmente avevano l'aspetto che hanno tutte le altre ma in seguito il loro corpo ha preso a torcersi e a girare su se stesso con un movimento ad elica producendo la conchiglia a spirale tesa ora verso sinistra ora verso destra a seconda della specie.
In una conchiglia si distinguono: un apice, una base, i diversi giri che si chiamano «anfratti» e la «sutura», cioè la linea elicoidale che segna il punto di congiunzione dei giri dell'elica.
La ricerca delle conchiglie non è solo un gioco per bambini ma un dilettevole passatempo per i grandi e spesso anche un utile occupazione.
Il guscio di certi molluschi, infatti, presenta spesso strati di madreperla utile per la fabbricazione di oggetti ornamentali e di uso comune. È interessante infine sapere che alcuni popoli primitivi ancor oggi usano certe conchiglie chiamate «cauri» non solo come oggetti ornamentali ma come monete.
Conchiglia di nautiloide
PERCHÉ ALCUNI ANIMALI VENGONO USATI COME CAVIE IN LABORATORIO?
Grazie alle ricerche di molti scienziati la scienza e la medicina in particolare hanno compiuto enormi progressi riuscendo a debellare malattie che un tempo condannavano a morte.
Ma l'eccezionalità di certi risultati è stata resa possibile non solo grazie al genio degli uomini ma anche al sacrificio di molti animali cavia.
La scelta degli animali da utilizzare come cavie in laboratorio è fatta seguendo precisi criteri, in base al tipo di esperienza che si vuol portare a termine. Molti animali infatti presentano particolarità fisiologiche simili a quelle dell'uomo per cui, volendo sperimentare un determinato farmaco, prima lo si prova sull'animale e se il risultato è buono lo si utilizza per l'uomo.
I topi per esempio, che possiedono un apparato digerente simile a quello dell'uomo, vengono utilizzati per esperimenti sull'alimentazione; i cani per tentare arditi trapianti di organi; le scimmie per esperimenti sul cervello... e così via.
Le cavie animali non sono utilizzate solo dalla medicina: forse qualcuno di voi ricorderà Laica, la cagnetta che gli scienziati russi inviarono nello spazio per esperimentare le condizioni del volo orbitale sull'organismo animale.
PERCHÉ ALCUNI UCCELLI NON VOLANO?
Parlando degli uccelli abbiamo detto come la loro fondamentale caratteristica sia il volo. Eppure non tutti gli uccelli volano: ve ne sono alcuni che in tempi lontanissimi hanno preferito abbandonare questa loro invidiabile prerogativa per vivere sulla terra come tutti gli altri animali. Tra essi ricordiamo gli struzzi, i mandù, i casuari e pochi altri.
Perché dunque non volano se anch'essi sono uccelli? Abbiamo visto in precedenza quali sono le caratteristiche che permettono agli uccelli e soltanto a loro di volare: ossa pneumatiche e sterno a carena.
Ebbene gli uccelli inetti al volo mancano dello sterno a carena, le loro ali sono molto ridotte e le ossa sono diventate più pesanti.
Tutti questi uccelli formano una sottospecie chiamata appunto dei «Ratiti» in contrapposizione ai Carenati.
Tra i Ratiti ve n'è uno che senz'altro conoscete per averlo visto allo Zoo: lo struzzo.
Lo struzzo è il più grande degli uccelli viventi. Può raggiungere un'altezza di due metri e mezzo ed un peso di 150 chili.
All'inettitudine al volo supplisce con la velocità della sua corsa e con una notevole scaltrezza. Contrariamente a quanto afferma una nota leggenda, lo struzzo all'approssimarsi di un pericolo non nasconde la testa sotto la sabbia, ma si acquatta sul terreno in modo da mimetizzarsi grazie al colore del piumaggio.
Nota, infine, è la straordinaria capacità digestiva del suo stomaco che pur prediligendo l'erba, riesce a digerire gli oggetti più disparati.
PERCHÉ IL SALMONE PROCEDE CONTRO CORRENTE?
Parlando delle anguille e delle loro periodiche migrazioni, abbiamo detto come molti animali posseggano un formidabile istinto ancestrale che consente loro di percorrere invariabilmente lo stesso cammino per generazioni e generazioni.
L'uomo ha cercato di scoprire il segreto di questa straordinaria caratteristica, ma non è riuscito che a stabilire il tracciato di questi percorsi. Come fanno le anguille a raggiungere il piccolo specchio del Mar dei Sargassi? Come fanno le piccole tartarughe, non appena uscite dall'uovo nascosto nella sabbia, a dirigersi senza fallo al mare? Come fanno gli elefanti ad andare a morire in un particolare e ben preciso «cimitero»?
L'uomo spiega tutto ciò in due parole: istinto ancestrale, un istinto cioè che deriva loro dal comportamento sempre identico della specie nel corso dei millenni.
Tra gli animali migratori, forse il più interessante è il salmone.
Il salmone nasce presso le sorgenti dei fiumi ed è un piccolo pesce trasparente detto «avannotto», che si nutre di sostanze vitelline racchiuse in piccolo sacco posto sotto l'addome. Esaurite queste sostanze, i piccoli salmoni si alimentano di plancton e nel volgere di due anni raggiungono circa 15 cm. di lunghezza subendo contemporaneamente una profonda trasformazione.
Assunta una forma simile a quella degli adulti, abbandonano l'ambiente in cui nacquero, scendono lungo i torrenti, entrano nei fiumi e giungono infine al mare. Qui subiscono ancora una trasformazione, relativa soprattutto al colore della muta, divenendo simili ai pesci marini, cioè blu o argentei. Nel mare i salmoni diventano completamente adulti, raggiungendo notevoli dimensioni. Al momento dell'accoppiamento si dirigono verso la foce dei fiumi per risalirne il corso. È proprio a questo punto che vengono pescati abbondantemente.
Quelli che riescono a sfuggire alla cattura, iniziano il lunghissimo cammino che li porta proprio nel luogo in cui sono nati. Durante il viaggio non hanno tempo per fermarsi a mangiare e per vincere la corrente dando fondo alle energie accumulate nei diversi anni di vita marina.
Se il percorso di andata per giovani salmoni è stato agevole in quanto aiutati dalla corrente, il percorso di ritorno presenta numerosi ostacoli: la corrente contraria, rapide e cascate, quando poi non si tratti di superare delle dighe costruite dall'uomo dopo il loro primo passaggio.
Quando arrivano esausti e smagriti là dove sono nati, depongono le uova, lasciandole al loro destino. Quindi si abbandonano alla corrente affinché li ritrasporti al mare. Questo è per loro un viaggio penoso: molti muoiono, altri vengono pescati, pochissimi arrivano al mare. Questi pochi privilegiati dovranno restare in mare almeno due anni prima di aver riacquistato le forze per compiere un nuovo viaggio a ritroso fino alle acque dei torrenti montani. Ma sono rari i salmoni che riescono a ritornare più di due volte alle sorgenti dei fiumi per riprodursi.
PERCHÉ I RONDONI NON RIESCONO A STACCARSI IN VOLO DA TERRA?
I rondoni appartengono all'ordine degli Apodiformi come i colibrì. Assomigliano molto alle rondini, benché non abbiano alcuna affinità con esse: infatti il loro corpo è più robusto, la coda più corta e rigida e soprattutto perché non riescono a librarsi in volo da terra.
Ciò è dovuto, oltre che ad una notevole apertura alare, al fatto che le loro zampe sono così piccole e corte che non consentono loro neppure di camminare.
Ma non si deve pensare che la natura sia stata ingiusta con questi uccelli, poiché ha loro fornito una risorsa che supplisce all'immobilità delle zampe. Queste infatti sono munite di unghie così aguzze da potersi aggrappare a qualsiasi superficie, cosicché, se per disgrazia cadono a terra, si trascinano faticosamente, finché non trovano un appiglio grazie al quale trarsi ad una certa altezza e da cui prendere il volo.
I rondoni sono i più veloci uccelli del mondo: pensate che possono raggiungere l'incredibile velocità di 150 km. orari. Volando a grandi altezze, catturano gli insetti di cui si nutrono e sempre volando, bevono e si bagnano tuffandosi nell'acqua.
Costruiscono i loro nidi servendosi di ramoscelli che incollano insieme con un liquido simile alla saliva.
A proposito di questi nidi, non si può tralasciare una notizia piuttosto curiosa almeno per gli occidentali: essi vengono usati in Oriente per cucinare una squisita minestra.
PERCHÉ ALCUNI ESSERI VIVENTI EMETTONO LUCE?
In certi mari, specialmente d'estate, e più frequentemente nei mari tropicali, si può assistere ad un affascinante fenomeno: di notte, le acque del mare sono pervase da una diffusa luminosità.
Questo fenomeno è dovuto alla presenza di numerosi esseri viventi marini capaci di produrre luce. In natura molti sono gli animali e le piante che posseggono questa straordinaria capacità.
La luce è prodotta generalmente con mezzi chimici, passa dal blu al rosso e non presenta radiazioni ultraviolette né infrarosse. Per questo in essa non si riscontra la minima traccia di calore: è una luce del tutto fredda.
Il meccanismo di emanazione della luce non è ancora ben chiaro: sembra solo accertato che per determinare il processo luminoso sia necessaria l'acqua in quanto organismi luminescenti perdono la loro capacità se messi all'asciutto e la riacquistano di nuovo se bagnati.
Altri animali hanno bisogno di ossigeno, anche in minime quantità. In ogni caso, comunque, nel processo luminoso intervengono due sostanze chimiche, la luciferina e la luciferasi. La prima di natura organica viene ossidata dalla seconda e produce luce.
I più noti animali luminescenti sono le meduse, certi vermi marini, alcuni molluschi, le stelle marine, alcune specie di crostacei, alcuni insetti, tra cui la lucciola di cui abbiamo parlato precedentemente e molti pesci, specialmente quelli che vivono negli abissi.
Vi sono anche animali che devono la loro luminosità a certi protozoi che vivono come parassiti nel loro organismo.
Salvo per gli animali abissali, per i quali la luce ha un'importanza fondamentale perché utilizzata nella ricerca del cibo e come richiamo per individui della stessa specie di sesso contrario, non è molto chiaro lo scopo per cui certi animali emettano luce. Parlando della lucciola, abbiamo visto come solo le femmine sprovviste di ali possono emettere luce e usarla come richiamo.
Ma esistono dei funghi che emanano una vivida luce è che raggruppati potrebbero sostituire un lampadario. A proposito di funghi, ne esiste una specie che cresce nel legno in decomposizione e dà anch'essa origine a continui bagliori. Durante la seconda guerra mondiale, a Londra, la legna accatastata nei depositi dava spesso una luce così forte che era necessario coprirla con tele incatramate per impedire che gli aerei nemici la scorgessero.
Nelle zone polari, dove si hanno notti di sei mesi, si usano cortecce luminose per rischiarare le piste e le strade di campagna.
PERCHÉ GRAN PARTE DEGLI ANIMALI VENGONO CLASSIFICATI CON UN NOME LATINO?
Diciamo subito che non solo gli animali vengono classificati con termini latini, ma anche piante e minerali, in una parola tutto ciò che la Natura comprende.
Fin da quando è stato creato, l'uomo ha dato un nome alle cose, nome che varia a seconda del particolare linguaggio usato dai vari popoli della terra. Ad un certo punto è sorta la necessità di aggiungere al nome comunemente usato un nome scientifico che potesse essere valido per tutti.
Il gatto, ad esempio, si dice «gatto» in italiano, «chat» in francese, «cat» in inglese e così via. Il termine scientifico valido per tutti è il termine latino «felis».
Così avremo il «felis bengalensis», il gatto del Bengala; il «felis silvestris», il gatto selvatico di dimensioni maggiori di quelle del gatto domestico... e così via.
Fu il famoso naturalista Carlo Linneo a darci la prima classificazione binomia in uso ancor oggi, sebbene si siano rese necessarie molte modifiche. Cosa questa comprensibile se si pensa che Linneo operò nel 1703 e che la sua conoscenza degli oggetti da classificare era senz'altro minore di quella che possediamo oggi.
Secondo Linneo, come abbiamo visto, ogni specie è indicata con due nomi latini, di cui il primo è un sostantivo e si riferisce al genere, il secondo è solitamente un aggettivo che ne caratterizza meglio gli attributi fondamentali.
PERCHÉ IL RAGNO FA LA TELA?
Voi sapete che un sistema antico ma tutto oggi ancora valido di pescare pesci è quello di gettare in mare una rete. Il ragno è, sotto questo aspetto, un ottimo pescatore: tesse la sua tela e la tende come una rete, quindi aspetta che gli insetti di cui si nutre, vi restino impigliati.
I ragni appartengono all'ordine degli aracnidi, come le zecche, gli scorpioni e gli acari. Essi ammontano ad un totale di circa quarantamila specie e sono diffusi un po' in tutto il mondo.
Quasi tutti i ragni secernono un filo sericeo per mezzo di filiere situate sull'estremità dell'addome. Il filo di seta serve oltre che per fare la ragnatela, anche per filare il bozzolo che contiene le uova.
Come abbiamo detto i ragni si cibano prevalentemente di insetti: restano attaccati, appesi ad un lungo filo, alla ragnatela; non appena un insetto cade nelle maglie della rete, la vibrazione conseguente avverte il ragno della presenza del malcapitato ospite. Il ragno sale allora alla tela, inietta nella preda enzimi che ne sciolgono i tessuti, quindi succhia il liquido lasciando solo lo scheletro esterno dell'insetto.
La costruzione della tela da parte di un ragno è una vera opera d'arte e segue rigide regole. La tela del ragno trova delle applicazioni nella tecnica moderna: ma non è utilizzata, come si potrebbe pensare, nell'industria tessile, bensì in ottica per segnare una sottile linea di riferimento nelle lenti dei micrometri e dei telemetri grazie alla sottilissima sezione del filo.
PERCHÉ SI FERRANO I CAVALLI?
I cavalli, insieme ai rinoceronti ed ai tapiri, appartengono all'ordine dei Perissodattili, ungulati che posseggono un numero di dita impari. Il cavallo, infatti, ha arti allungati, in armonia con tutto il corpo, che finiscono con un solo dito di cui l'ultima falange, enormemente ingrossata, è rivestita da un'unghia cornea, lo zoccolo.
Il cavallo allo stato brado preferisce terreni molli su cui correre poiché lo zoccolo, a lungo andare, si consuma.
Nell'antichità i cavalli non erano ferrati e il loro impiego era perciò assai limitato: lo zoccolo si consumava ben presto, il piede si feriva e il cavallo non poteva essere più utilizzato.
Verso il X secolo dopo Cristo in Occidente cominciò a diffondersi l'usanza di apporre un ferro agli zoccoli dei cavalli, piantando i chiodi nella parte morta degli stessi, per poter prolungare notevolmente l'impiego utile dell'animale e il suo rendimento nel lavoro.
PERCHÉ LA LUMACA LASCIA DIETRO DI SE' UNA SCIA?
Le lumache e le chiocciole, che si distinguono essendo le prime sprovviste di conchiglia, sono Molluschi terrestri o, più propriamente, appartengono all'ordine dei Gasteropodi Polmonati. Le chiocciole presentano una conchiglia elicoidale, avvolta a spirale, nella parte destra del corpo.
Essendo molluschi, hanno il corpo molle ed allungato, con i piedi non ben distinti dal corpo tanto che nel procedere sembrano strisciare.
Amano i luoghi freschi e soprattutto umidi (è molto facile infatti trovarne numerose dopo una abbondante pioggia) e si cibano di funghi, di foglie ed anche di altri animali in decomposizione. Per mantenere il loro corpo sempre umido alla superficie, secernono un muco variamente colorato e viscoso che permette loro, contemporaneamente, di arrampicarsi su pareti di qualsiasi inclinazione. Nutrendosi, come abbiamo detto, quasi esclusivamente di sostanze vegetali, possono compiere devastazioni notevoli negli orti e nei giardini.
Per questo sono oggetto di spietata caccia da parte degli ortolani e dei giardinieri che le combattono cospargendo il terreno di sostanze pulverulente come cenere, calce o sabbia fina che esauriscono in breve l'attività secretrice delle ghiandole mucose provocando la morte dell'animale per progressiva disidratazione.
Una lumaca
PERCHÉ MOLTI ANIMALI MUOVONO LE ORECCHIE?
Parlando dell'orecchio abbiamo detto che il padiglione auricolare esterno per la sua forma ovale e variamente scolpita ben si presta a convogliare i suoni ed a indirizzarli verso l'orecchio interno. Benché la Natura ci abbia fornito di queste protuberanze cartilaginee (che spesso purtroppo non ci giovano esteticamente!) sovente bisogna correre in loro aiuto, per udire meglio suoni confusi, troppo deboli o non perfettamente individuabili, auricezione, ponendo cioè le mani a cornetto attorno all'orecchio stesso.
Con questo semplice artifizio noi uomini possiamo aumentare alquanto le nostre non eccezionali capacità uditive. Gli animali, mancando di mani e possedendo le loro zampe una capacità d'azione notevolmente limitata, non possono fare altrettanto.
Per ovviare a ciò la Natura ha fornito molti di essi di padiglioni mobilissimi sì da poterli orientare nella direzione dei rumori, individuarne l'origine e il luogo di provenienza e permettere loro così di salvaguardarsi da ogni eventuale pericolo.
PERCHÉ LE PECORE D'ESTATE, VANNO IN MONTAGNA?
Le pecore sono animali gregari ed appartengono all'ordine degli Artiodattili, mammiferi ungulati dallo zoccolo fesso. Come le mucche e le capre, le pecore sono ruminanti e si cibano d'erba.
Come attestano i resti rinvenuti nelle più antiche palafitte, le pecore furono tenute allo stato domestico fin dalla preistoria ed utilizzate per il latte, la carne e soprattutto la lana.
Le pecore sono grandi divoratrici d'erba ed hanno bisogno di pascoli rigogliosi. In estate i pascoli delle pianure, invece, si disseccano e per questi animali non c'è cibo sufficiente. Perciò, fin dai tempi più antichi, all'inizio della primavera i pastori effettuano la cosiddetta «transumanza», conducono cioè le loro greggi in montagna dove la temperatura più fresca garantisce loro pascoli verdi ed erba più saporita e nutriente.
Quindi, alla fine dell'estate, quando la montagna sta per accogliere la neve invernale, le greggi ritornano al piano.
Un tempo era possibile vedere i pastori e le loro greggi effettuare queste migrazioni stagionali a piedi: giorni e giorni di cammino, aiutati dai cani, notti passate all'aperto, in bivacco, le pecore rinchiuse in ovili improvvisati.
Oggi, naturalmente, si usa compiere la transumanza caricando le pecore su convogli ferroviari o sugli automezzi e la vita del pastore, pur avendo perduto la sua antica poesia (agli occhi, in verità, di chi non faceva il pastore!), ha guadagnato notevolmente in comodità e soprattutto in rendimento.
PERCHÉ LA VESPA PUNGE?
Le vespe, appartenenti all'ordine degli Imenotteri, sono insetti di media statura con le ali anteriori che si appoggiano al dorso, doppiamente ripiegato per il lungo.
Sul nostro pianeta gli scienziati hanno accertato l'esistenza di circa 3000 specie di vespe, largamente diffuse, pur prediligendo i climi tropicali. Esse vivono solitamente in società, in «vespai», dove allevano le larve che si presentano tozze, senza piedi e cieche. Si cibano prevalentemente di sostanze zuccherine che estraggono dalla frutta specialmente fermentata.
Le femmine sono provviste di un pungiglione velenoso, un'arma che esse usano sia come mezzo di difesa sia come mezzo di offesa. Quest'ultimo caso si realizza, in modo particolare e curioso, nel processo di alimentazione delle larve.
Nelle specie di vespe solitarie, la femmina, prima della nascita della larva, uccide un bruco con il suo pungiglione e quindi vi depone la larva affinché si nutra con questo.
Per gli insetti sociali, invece, l'approvvigionamento delle celle è fatto giornalmente con insetti paralizzati dalla puntura velenosa, spesso dopo averli maciullati e privati di zampe e di ali. In alcune specie le larve sono provviste di una sporgenza ventrale su cui viene deposto il pasto, per essere divorato in tutta tranquillità.
Le nutrici, a loro volta, ottengono in cambio dalle larve una secrezione salivare di cui sono particolarmente ghiotte.
Si è scoperto che questo intimo scambio di sostanze alimentari, detto «trofallasi», che avviene tra larve e femmine nutrici costituisce uno dei fondamentali istinti su cui si regge la organizzazione sociale delle vespe.
Particolarmente interessante è osservare il nido, costruito con tecniche diversissime a seconda della specie.
Alcune utilizzano gallerie e cunicoli abbandonati dagli insetti xilofagi (mangiatori di legno), altre nidificano tra le canne ed i rovi, o usano gli interstizi dei muri che dividono in, celle con terra impastata.
Alcune specie solitarie costruiscono nidi di argilla impastata con acqua, ma un vero e proprio capolavoro di architettura è il nido di alcune specie sociali, costruito con cartone ottenuto masticando fibre legnose ed impastandole con la saliva.
I vespai sono costituiti da uno o più favi di cellette esagonali, racchiusi generalmente in un involucro e costruiti in luoghi riparati dalla pioggia, non di rado addirittura sotto terra.
Questi ultimi sono una fonte di pericolo: incappare in un vespaio con uno strumento agricolo può significare scatenare la furia delle femmine e mettere in azione i loro velenosissimi pungiglioni. È possibile che un uomo, assalito da uno sciame di vespe inferocite, ci rimetta la vita: se, infatti, una puntura sola, pur dolorosissima, non è mortale, una serie di punture possono portare alla paralisi ed alla morte.
PERCHÉ LA GAZZA È LADRA?
Nel 1817 Gioacchino Rossini scrive un'opera musicale, «La gazza ladra», in cui una serva di nome Ninetta viene imputata del furto di una posata e condannata a morte.
Prima d'esser giustiziata si scopre che la vera autrice del furto è una gazza.
Il dramma in questione, dunque, si fonda sulla strana abitudine di questo volatile, appartenente all'ordine dei Passeracei e alla famiglia dei Corvidi, di rubare e nascondere oggetti preziosi. Occorre subito precisare che la gazza non ha affatto la consapevolezza della preziosità di ciò che ruba ma è solo attratta da tutto ciò che brilla. A questa morbosa attrazione si aggiunge poi un carattere bizzarro e dispettoso che la spinge a raccogliere l'oggetto ed a nasconderlo gelosamente per poterlo rimirare in solitudine, come fa l'avaro con il suo tesoro sepolto.
La gazza è un uccello di media statura, dal piumaggio bianco e nero vellutato, dalla coda lunga e graduata; abita prevalentemente luoghi molto alberati e costruisce un nido a cupola sugli alberi. Si ciba di grani, di insetti, di uova di uccelli. Ha una carne coriacea e immangiabile.
Oltre ad essere nota ed esecrata per le sue abitudini ladresche, lo è anche perché non è capace di cantare: emette solo un aspro cicaleggio, tanto poco armonioso che ad un individuo eccessivamente ciarliero si usa dire: «Sei più noioso di una gazza!».
PERCHÉ L'AIRONE DORME SU UN PIEDE SOLO?
Abbiamo già detto che gli uccelli, come i mammiferi, sono animali a sangue caldo e cioè che hanno la proprietà di mantenere costante la temperatura del proprio corpo nonostante le variazioni della temperatura esterna. Negli uccelli il piumaggio ha una funzione fondamentale: evita la dispersione del calore.
Ma non tutto il loro corpo è ricoperto di piume: le loro zampe infatti sono nude ed è per questo che, nella stagione fredda, possiamo vedere gli uccelli in prevalenza accucciati, con le zampe nascoste nel piumaggio.
L'airone che vive generalmente nell'acqua, a forza di tenere le zampe in bagno, finisce per avere freddo.
Ed ecco perché gli ornitologi pensano che la sua strana abitudine di dormire o di riposarsi su una sola gamba sia ne più né meno che un tentativo di limitare la dispersione del calore corporeo.
PERCHÉ LE TARME ROVINANO I TESSUTI?
Le tarme, note anche con il nome di tignole, sono dei microlepidotteri a cui l'uomo dà una caccia spietata: esse infatti, per il fatto di nutrirsi di tessuti ricavati da prodotti animali, sono un vero flagello per quanto riguarda la lana, il feltro e le pellicce con cui l'uomo confeziona i propri abiti. Si è scoperto che gli adulti non sono direttamente dannosi poiché, con ogni probabilità, non si nutrono affatto: le larve, invece, sembrano essere le uniche colpevoli di tanta distruzione. Ogni femmina adulta, infatti, depone una cinquantina di uova nei tessuti che dovranno servire di esclusivo nutrimento alle larve. Le uova si schiudono nel giro di una settimana e le larve cominciano a nutrirsi con estrema voracità, tanto che in un mese hanno già raggiunto il mezzo centimetro e diventano crisalidi. Girovagando a loro piacimento, alcune larve tessono ragnatele sericee nei cunicoli scavati nella stoffa, altre si fabbricano un fodero, una specie di abitazione, che si trascinano dietro nelle loro scorribande. Il risultato di tutto ciò è che un abito infestato di tarme, se non tempestivamente protetto e disinfestato, si riduce ben presto ad uno straccio pieno di buchi!
Le tarme si combattono con vapori di anidride solforosa e con la naftalina, a voi tutti nota, un idrocarburo aromatico assai efficace.
PERCHÉ MOLTI ANIMALI VIVONO IN COMUNE?
Se può essere considerato normale il fatto che individui della stessa specie vivano in associazioni, in vere e proprie società organizzate, abbastanza curioso ed interessante è osservare che molti esseri viventi, pur non essendo della stessa specie o addirittura dello stesso «regno», riescano a vivere un'esistenza associata non solo senza danneggiarsi ma addirittura con reciproci vantaggi.
Questo tipo di esistenza in comune tra due individui di specie diversa si chiama «simbiosi». Vi sono vari tipi di simbiosi: in particolare si dice «commensalismo» l'associazione che risulta favorevole per uno solo degli individui e che per l'altro non è motivo di danno o di disturbo. Un esempio di commensalismo è dato dalla Remora che con la sua pinna a ventosa si attacca alle tartarughe o ai pescicani per farsi trasportare.
Un altro esempio è dato da alcune specie di granchi e di gamberetti che vengono tollerati dalla vastissima società di animaletti che formano gli agglomerati delle spugne.
Un esempio relativo al «regno vegetale» è dato dalla vite che si serve spesso degli alberi per salire in alto e portarsi alla luce del sole.
La simbiosi completa, detta simbiosi mutualistica, prevede vantaggi per tutti gli individui che partecipano all'associazione.
Un esempio classico di simbiosi mutualistica è dato dal Paguro Bernardo, detto Bernardo l'eremita, il quale offre la propria conchiglia (anche essa presa a prestito da altri crostacei) all'Anemone di mare; l'Attinia difende il Paguro con le sue cellule urticanti in cambio di cibo.
Abbiamo già incontrato un interessante esempio di simbiosi quando abbiamo parlato delle termiti e dei protozoi che vivono nel loro intestino: grazie ad essi, infatti, le termiti possono digerire il legno; i protozoi, a loro volta, trovano nell'intestino delle termiti un comodo e sicuro asilo oltre ad un'abbondante riserva di cibo.
Una simpatica associazione, inoltre, è quella offerta da molte specie di uccelli e certi ruminanti: il «Bufaga» africano, ad esempio, predilige la groppa dei rinoceronti nutrendosi dei loro parassiti, con evidente vantaggio per entrambi.
Un esempio di simbiosi mutualistica,:infine, relativo al regno vegetale, è costituito dal lichene, che è un'associazione tra un alga e un fungo.
PERCHÉ LA RANA COMPIE GRANDI SALTI?
La rana è il nome comune delle varie specie del genere di anfibi Anuri diffuse in ogni parte del mondo. Le rane vivono prevalentemente in acqua, stagnante o corrente, e ne escono solo di notte alla ricerca di cibo, nutrendosi esse di insetti, di chiocciole, di girini ed anche di rane più piccole. La rana ha le estremità palmate, molto adatte al nuoto ma, a causa della notevole dimensione delle gambe posteriori, il suo passo sulla terraferma non è agevole: in compenso la rana, come tutti sanno, è agilissima poiché, invece di procedere al passo, procede a balzi. Dotata di una muscolatura potente, in posizione di riposo dispone le gambe posteriori a Z e, al momento del salto, le distende di scatto con risultati strepitosi.
È interessante ricordare l'importanza che ha avuto la rana nel progresso della fisica moderna. Fu proprio dalle osservazioni sul comportamento di una rana scorticata che Galvani effettuò le prime esperienze sull'elettricità che portarono poi Alessandro Volta alla invenzione della pila.
PERCHÉ SI DICE «PIANGERE» LE LACRIME DEL COCCODRILLO?
Può capitare che si pianga senza un vero motivo, senza un vero dolore, che si reciti la commedia delle lacrime per ottenere ciò che si desidera, per commiserare un dolore altrui senza effettiva commozione:
in questi casi, si dice, si piange le lacrime del coccodrillo.
Perché mai? Forse il coccodrillo piange? No: è solo una diffusa diceria, nata chissà come, forse osservando un coccodrillo a fior d'acqua attendere felinamente la propria preda.
È vero: gli occhi del coccodrillo sono umidi, egli li tiene costantemente lubrificati per proteggerli dall'acqua e dai corpi estranei. Ma, altro che piangere! Sta per balzare sulla preda con una rapidità inaudita!
La leggenda è forse nata proprio così: un osservatore sensibile stava guardando un coccodrillo a fior d'acqua piangere le sue lacrime; forse l'uomo compiangeva l'animale sapendo quanto la sua digestione sia lenta; è difficile. Ad un tratto lo vide balzare sulla preda e divorarsela in un batter d'occhio. Pieno di orrore l'uomo diffuse la notizia nel mondo che il coccodrillo è un animale infido che piange prima per attirare gli animali e, dopo il pasto, per un falso rimorso.
PERCHÉ I CERVI HANNO LE CORNA?
Le corna, formazioni più o meno importanti di natura varia, sia tegumentale e cheratinizzata, sia ossea, sono proprie quasi esclusivamente dei Mammiferi Ungulati, ai quali nascono e crescono sulla superficie dorsale della testa. Generalmente i Mammiferi Ungulati sono animali che presentano un forte istinto gregario e, parlando degli animali che vivono in branchi, abbiamo già avuto occasione di dire come i loro mezzi di difesa si riducano al numero ed alle corna, essendo essi in prevalenza erbivori.
Le corna, dunque, in questi animali per lo più schivi, sono un formidabile mezzo di difesa, non solo personale ma messo a disposizione del branco. Le corna, infine, presso alcune specie (ad es. i cervi) in possesso dei soli maschi, servono come armi da combattimento per la conquista della femmina.
Questo è senz'altro l'aspetto più epico che si riferisce agli animali con le corna: cosa c'è di più maestoso e di grande di due poderosi cervi che incrociano con le corna frondose nella lotta?
Fin dai tempi più antichi le corna hanno rappresentato il simbolo della forza e del potere e come tali attributo di esseri mitologici e divinità. Il dio Ammone, ad esempio, della mitologia egizia era rappresentato in aspetto umano e possedeva le corna e così i satiri della mitologia greca; anche Mosè, nella Bibbia, è spesso rappresentato con le corna, quali simboli di potenza (così lo ha ritratto Michelangelo, nel suo capolavoro).
Come abbiamo accennato le corna sono formazioni di natura diversa: in alcune specie sono costituite da fibre epidermiche cheratinizzate, saldate tra loro, cioè, e rese dure dalla cheratina, la sostanza che sta alla base delle unghie, dei peli, delle penne, dell'epidermide e degli aculei; in altre specie le corna sono parte tegumentali e parte ossee, generalmente rivestite di pelle (giraffe). In alcune specie (antilopi, camosci, bovidi etc.) le corna sono cave e permanenti; in altre, nei cervi, ad esempio, sono formazioni esclusivamente ossee che, in quasi tutti cervi, cadono annualmente dopo l'epoca degli amori per ricrescere subito dopo: durante la crescita le corna sono dapprima ricoperte di pelle, ma quando raggiungono dimensioni ragguardevoli, questa avvizzisce e cade.
Le corna degli animali sono spesso utilizzate dagli uomini per fabbricare oggetti (usanza antichissima, questa, che risale addirittura all'età della pietra): pettini, bottoni, manici d'ombrello e così via. Pregiato per questi usi il corno dei bisonti e dei bufali; meno pregiato quello dei buoi. Non è molto difficile lavorare il corno poiché ha la proprietà di divenire malleabile intorno ai 100 gradi. È interessante ricordare, infine, l'utilizzazione assai diffusa in passato del corno come strumento musicale a fiato, usato per lanciare richiami nelle cacce e durante le battaglie.
PERCHÉ LE MOSCHE SONO NOCIVE?
Le mosche appartengono alla nutritissima famiglia degli Insetti Ditteri Brachiceri, di cui costituiscono più della metà delle specie. Le varie specie di mosche hanno in comune la forma tozza del corpo, il grandissimo sviluppo del mesotorace, cioè della parte mediana del corpo, le ali brevi ma adatte al volo rapido e veloce, l'apparato buccale atto a succhiare e talvolta a perforare l'epidermide degli animali ed infine la presenza sul corpo di molte setole sensoriali. La mosca vive accanto all'uomo su quasi tutta la terra, sviluppandosi a spese dei suoi rifiuti o cibandosi dei suoi stessi cibi.
La mosca è il nostro più subdolo e temibile nemico poiché può portare su noi e sui nostri alimenti i germi di gravi malattie come il tifo, il colera, il carbonchio e la tubercolosi, germi che la mosca, cibandosi d'ogni sorta di rifiuto, raccoglie nelle materie più infette, trasporta sia nell'intestino sia attaccati alle setole sensoriali e deposita dappertutto.
La sua azione nociva è aggravata dalla rapidità con la quale compie il proprio ciclo vitale.
Le uova vengono deposte negli escrementi e nelle immondizie di cui si cibano le larve, il cui numero cresce a dismisura in particolari condizioni ambientali, soprattutto di temperatura.
Per combattere questo temibile nostro nemico conviene innanzi tutto eliminare i luoghi di riproduzione, la sporcizia, dunque; quindi impedire alle mosche l'accesso nelle abitazioni proteggendo le finestre con fitte reti (utili anche per le zanzare) o dipingendo le pareti d'azzurro, colore repulsivo per le mosche.
Infine cercare di distruggerle con gli insetticidi asfissianti o con esche a base di arsenico.
A questo proposito è interessante ricordare come l'eclettismo alimentare delle mosche sia una loro prerogativa eccezionale: fino a pochi anni fa il DDT era stato un insetticida assai efficace; ebbene, è stato provato che in alcune località si è sviluppata una razza di mosche che si è immunizzata e resiste a questo insetticida.
PERCHÉ GLI UCCELLI HANNO IL BECCO DI FORMA DIVERSA?
Il becco, organo proprio a molte specie animali, è un rivestimento di sostanza cornea che, soprattutto negli uccelli, inguaina la mascella e la mandibola. Di solito alla base superiore esso è molle e forma la cera in cui si aprono le narici. Il becco è un organo che presenta il maggior numero di variazioni, in rapporto al particolare regime alimentare di chi lo possiede.
Gli uccelli si servono del becco per nutrirsi, per difendersi, per costruire il nido e per pulirsi le penne; la sua forma quindi varia in rapporto al tipo di cibo che mangiano e al modo con cui sono abituati a procurarselo.
Sarebbe impossibile elencare le varie forme di becco poiché ogni specie, si può dire, presenta caratteristiche particolari per quanto riguarda questo organo. Ci limiteremo a ricordarvi le variazioni e le particolarità più appariscenti.
Il pappagallo, ad esempio, ha un becco grande e duro, adatto a schiacciare involucri resistenti (noci etc.). Il passero, come i polli, ha un becco conico, adatto a beccare i semi. L'aquila e i Rapaci in genere hanno una specie di gancio tagliente sul becco superiore, adatto a squarciare le carni della preda ch'essi trattengono con gli artigli. La beccaccia di mare ha il becco a forma di lamine, lunghe e resistenti, per aprire le conchiglie mentre i fenicotteri hanno un becco grosso e ricurvo in basso, adatto a filtrare il fango.
Il Picchio, infine, ha un becco appuntito e duro che, coadiuvato dai potenti muscoli del collo, serve all'uccello per forare la corteccia degli alberi alla ricerca dei grossi vermi.
Un pellicano
Esemplare di Ajaja ajaja o Spatola rosa
PERCHÉ I SERPENTI CAMBIANO PELLE?
I serpenti, durante la loro esistenza, hanno l'abitudine di cambiare spesso la pelle.
Questa si stacca a poco a poco ed essi strisciando rudemente contro le pietre l'aiutano a staccarsi completamente.
Perché mai sembrano tanto ansiosi di liberarsi da quello che è stato il loro vestito per tanto tempo?
La risposta è semplice: il serpente perde la propria pelle perché questa non cresce con la stessa velocità con cui cresce il corpo.
Una nuova pelle si è formata sotto quella vecchia, ormai diventata troppo stretta.
La pelle del serpente è costituita da un insieme di piastre cornee la cui formazione e la cui crescita sono naturalmente più lente dello sviluppo dello scheletro interno. Ad un certo punto il corpo del serpente, che continua a produrre piastre cornee per il rivestimento, viene ad avere dimensioni maggiori del proprio vestito: per questo se ne sveste, per consentire al proprio corpo di muoversi e di svilupparsi in piena libertà.
PERCHÉ I CANI ACCALDATI TENGONO LA LINGUA PENZOLONI?
Nei soggetti in normali condizioni di salute, si tratti di uomini o di cani, o anche di gatti, si verifica la cosiddetta «termoregolazione», che consiste nel mantenere costante la temperatura del corpo.
Abbiamo già accennato al fatto che i mammiferi hanno una temperatura del corpo indipendente, entro certi limiti, dalla temperatura dell'ambiente.
Nell'uomo, quando la temperatura esterna è molto elevata, i centri nervosi termoregolatori provocano la dilatazione dei vasi sanguigni e l'aumento di secrezione delle ghiandole sudoripare. Il sudore, spandendosi sulla pelle, evapora assorbendo calore ed abbassando la temperatura del corpo.
Il cane, a differenza dell'uomo, è un animale a sudorazione molto limitata. L'uomo, quando si affatica, suda le proverbiali «sette camicie». Invece, nel cane, la natura provvede diversamente a quella funzione che, nell'uomo, è assicurata dalla sudorazione.
La temperatura dei Mammiferi superiori (uomo escluso) si mantiene sulla media di 38-39°C. Quando la temperatura esterna è molto elevata, il forte calore ambientale produce notevole aumento della ventilazione polmonare, per il conseguente aumento della quantità di vapore acqueo eliminata dai polmoni. Perciò i cani e i gatti accaldati tengono la bocca aperta e la lingua fuori: per agevolare la traspirazione e per rinfrescarsi grazie all'evaporazione della saliva.
PERCHÉ I PESCI HANNO UN COLORE ARGENTEO?
Abbiamo detto in varie occasioni come le particolari colorazioni assunte dagli esseri viventi dipendano da speciali sostanze coloranti presenti in quantità variabili nelle cellule della pelle.
Sappiamo già, infatti, che il pigmento comune a tutti i Mammiferi si chiama «melanina» e che la quantità di melanina presente nelle cellule della pelle, ad esempio, degli uomini ne determina la colorazione, più o meno scura.
Abbiamo detto che, per moltissimi animali, la colorazione della pelle è un fattore molto importante legato alla sopravvivenza: il «mimetismo», infatti, è in molti casi un'arma formidabile per scampare alla morte.
Gli esempi più tipici di mimetismo vengono offerti dai pesci, il cui manto oltre ad essere oltremodo variegato ed intonato all'ambiente, può in moltissimi casi assumere colorazioni particolari, a seconda delle necessità del momento.
Molte specie di pesci, soprattutto i migratori, presentano una colorazione blu e argentea.
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un'esigenza mimetica che ha fissato in modo stabile il colore del manto: il blu solitamente concentrato nella regione dorsale, per evitare l'avvistamento da parte degli uomini in superficie, e il bianco argenteo sul ventre, per confondersi con la chiarezza dell'acqua, illuminata dal sole, e per scampare così agli assalti dei pesci provenienti dal fondo.
A che cosa è dovuta, dunque, questa loro caratteristica colorazione? Essa è data, sempre, da speciali sostante contenute nelle cellule delle squame e della pelle, costituite da basi puriniche, acido urico e soprattutto da un pigmento chiamato «guanina».
Ci sono dei pesci la cui colorazione ha però perso ogni funzione mimetica, a causa dell'intervento dell'uomo.
Tipico è il caso dei cosiddetti «pesci rossi» (carassio o ciprino dorato) originato in seguito alla domesticazione del «carassio comune» avvenuto in Cina nei primi secoli dell'era volgare. Il pesce giovane, infatti è scuro e diventa rosso tra il 60° e l'80° giorno dopo la schiusa delle uova.
PERCHÉ UN CANE PUO' DIVENTARE IDROFOBO?
Un cane si dice idrofobo quando è affetto da rabbia. L'espressione è assai impropria in quanto un cane, affetto da rabbia, non presenta mai sintomi di idrofobia, propri esclusivamente dell'uomo colpito da questa terrificante malattia. Che cosa significa idrofobia? L'idrofobia è un sintomo che si manifesta con uno spasmo della faringe e della laringe, scatenato dal contatto, dalla vista o semplicemente dall'idea dell'acqua.
Da che cosa è provocata la rabbia? È provocata da un virus, che misura un decimillesimo di millimetro, il quale attacca il sistema nervoso e determina una encefalite ad esito letale. Oltre l'uomo può colpire la maggior parte dei Mammiferi, soprattutto i cani.
Il virus della rabbia è presente nella saliva di animali infetti ed è solitamente trasmesso con la morsicatura. Dopo essere stato inoculato, seguendo le fibre nervose, raggiunge l'encefalo ledendolo profondamente e provocando la morte del soggetto.
Il periodo d'incubazione della malattia varia a seconda del soggetto colpito: nell'uomo va dai venti ai novanta giorni, nel cane supera di poco i dieci giorni.
Seguendo sempre le vie nervose parte del virus viene eliminato con la saliva, già infetta prima che i sintomi della malattia si manifestino in tutta la loro terribile evidenza.
Questi sono terribili nell'uomo: oltre alla idrofobia, scatenata dall'acqua, un altro sintomo drammatico è l'aerofobia, provocata dall'aria, che si manifesta in modo simile all'asfissia. Nei cani, pur mancando questi due sintomi, sussistono quelli della «rabbia furiosa» e della «rabbia paralitica», comuni anche all'uomo, che si manifestano con stati d'eccitazione e di follia o con paralisi.
La rabbia è fortunatamente molto rara nell'uomo, grazie alla vaccinazione preventiva realizzata in quasi tutti i Paesi del mondo, e alla profilassi fondata sulla soppressione dei cani randagi poiché, non essendo curati, possono con maggior probabilità, essere infetti.
PERCHÉ IL CANE È AMICO DELL'UOMO?
In una certa misura, il cane è una creatura dell'uomo, dato che, in tempi antichissimi, le razze canine di particolare utilità per l'uomo furono da questo conservate e selezionate fino a creare forme estreme come il levriere, il bull-dog, il bassotto. Non si creda che originariamente i cani fossero quelle bestie così beneducate che sono oggi.
Essi hanno verosimilmente per progenitori lo sciacallo, il lupo indiano, il lupo egizio, che non erano certamente cagnolini da salotto.
Tipici carnivori, con dentatura assai simile a quella dei lupi, i cani attualmente, in conseguenza della lunga domesticità, si sono adattati ad una alimentazione onnivora, vale a dire, mangiano di tutto, quando non manchi l'appetito.
La storia del cane si confonde con quella dell'uomo, dato che l'ha sempre seguito in ogni peregrinazione, concependo per lui timore, rispetto e, soprattutto, amore.
Tra gli animali, quelli che più ricordano la fisionomia umana, sono le scimmie antropomorfe: ma i cani sono quelli più affini all'uomo, perché hanno in comune con lui una pronta intelligenza. Cane e uomo hanno vissuto insieme così a lungo da essere addirittura indispensabili l'uno all'altro. Senza l'aiuto del cane, difficilmente l'uomo avrebbe potuto conquistare e ridurre in domesticità gli altri animali. Basti pensare ai cani da pastore che hanno la funzione di radunare e condurre il gregge o la mandria.
Esemplare di Levriero afghano
PERCHÉ CANI E GATTI NON VANNO D'ACCORDO?
Cani e gatti sono gli animali che più risentono dell'influenza dell'uomo. Hanno dimestichezza con lui fin dai tempi più remoti; hanno finito col prenderne certi pregi e difetti. Nell'ambito domestico, si sentono nel loro elemento; solo ogni tanto hanno bisogno di scorazzare e scatenarsi a piacimento. L'istinto della preda si è in essi quietato; preferiscono chiedere ed attendere dall'uomo quel che occorre al loro sostentamento: prendendolo di prepotenza solo quando la fame urge. Sono autorizzati, ed anzi incoraggiati, a prestare orecchio al richiamo della foresta solo in settori ben delimitati: quello dei topi, per il gatto, quello della caccia, per il cane.
Insomma, essi hanno in comune con l'uomo un comportamento «civile». Molti di noi hanno una spiccata preferenza per il cane o per il gatto. Si sente dire: «Il cane è affettuoso, servizievole, generoso; il gatto è pigro, volubile, ingrato». C'è invece chi loda lo spirito d'indipendenza del gatto e taccia il cane di spirito servile.
Riuniti in un ristretto ambito domestico, cane e gatto, così naturalmente diversi per indole e inclinazioni, hanno ben presto rivelato una preoccupante «incompatibilità di carattere». I favoritismi dell'uomo verso l'uno a danno dell'altro, hanno fatto precipitare le cose. Il nervosismo umano, che si manifesta spesso negli atteggiamenti verso gli animali, ha finito col contagiare i cani e i gatti.
Ma come non mancano le eccezioni tra gli uomini, così non mancano tra gli animali. Capita di vedere cani e gatti che fraternizzano. Sui giornali si sono lette notizie di cagne che hanno allattato e allevato dei gattini rimasti orfani.
PERCHÉ IL GATTO AMA LA PULIZIA PUR ODIANDO L'ACQUA?
Non si loderanno mai abbastanza le abitudini igieniche del gatto, che è davvero un animale amante della pulizia!... Però il gatto ha un carattere imprevedibile ed in tutte le sue manifestazioni non smentisce la sua indole di felino notturno e solitario, che concilia in sé tanti aspetti apparentemente discordanti. Affettuoso e allo stesso tempo noncurante, placido e allo stesso tempo animato da ispirazioni improvvise che lo spingono a prendere la via dei tetti, ad andare in cerca di avventure di cui poi porta a casa i segni in un orecchio smozzicato e nel pelo arruffato.
È davvero curioso questo fatto, che cioè il gatto, pur amando la pulizia, non si periti di gettarsi in imprese che lo riducono peggio di un carbonaio. E restiamo sorpresi ogni volta, quando vediamo che, senza mai scoraggiarsi, al ritorno dalle sue scorribande, il gatto non manca mai di rimettersi a nuovo, di ribadire il suo culto della «presentabilità».
La natura enigmatica di questo animale si riflette più che in tutti gli altri suoi atteggiamenti, in quello riguardante la pulizia.
Il gatto, come i felini in genere, ha in odio l'acqua, eppure tiene moltissimo all'igiene: due fatti che è difficile far coesistere. Eppure il gatto vi riesce, come dimostra l'assiduità con cui si liscia il pelo con la lingua, pazientemente, ripetutamente, passandosi lo zampino umettato di saliva sul collo e sulla nuca, insistendo fintantoché il pelo non gli diventi setoso e cangiante. Non c'è gatto randagio, per quanto malandato, che non metta tutto il suo impegno nel mantenersi pulito, che non dedichi più tempo alla toeletta che alla caccia ai topi.
Ma di acqua, nemmeno a parlarne!... Anche bevendo, i gatti fanno bene attenzione a non bagnarsi i baffi più dello stretto necessario (Come sapete, i baffi dei gatti, le «vibrisse», sono delicatissimi organi tattili).
La loro non è semplicemente un'avversione capricciosa, ma giustificata anche dalla loro vulnerabilità in rapporto all'acqua. Hanno così imparato a farne a meno, supplendovi egregiamente: a loro modo.
Esemplare di gatto domestico
PERCHÉ LA VOLPE È «FURBA»?
Vi sarà capitato di osservare una volpe in gabbia. È pervasa da una continua inquietudine e si rigira affannosamente entro quel po' di spazio che le è concesso, manifestando il più nero avvilimento. È uno degli animali che peggio sopportano la prigionia. È refrattario alla domesticazione e non tollera le attenzioni dell'uomo.
A differenza di altri animali, come i passeri, ad esempio, che pur di por fine ad uno stato di prigionia, si lasciano morire, la volpe conserva una indomita volontà di vita; non si rassegna, ma si consuma nel desiderio ossessivo della libertà. Proprio perché non sa adattarsi ad altro modo di vivere che non sia quello della caccia e d'una esistenza brada, questa irriducibile predatrice difende a tutti i costi la sua libertà: con la furbizia innanzi tutto, che ha sviluppata in sommo grado, soprattutto in seguito alla caccia spietata da parte dell'uomo.
Contro di lei, l'uomo mette in atto le insidie più subdole: trappole d'ogni genere, laccioli, bocconi avvelenati; si accanisce particolarmente contro la volpe, ben sapendo che essa non è un animale con cui si possa venire a patti, a cui si possa porre un freno.
La volpe ha imparato a riconoscere prontamente la traccia dell'uomo, anche dove la si può appena avvertire; ha imparato addirittura a smascherare le trappole e ad impadronirsi dell'esca senza subirne le conseguenze.
Come il cane ha affinato le sue doti di intelligenza attraverso una lunga consuetudine con gli uomini, così la volpe si è fatta furba per la ragione opposta: cioè per la sua inconciliabilità con mondo umano, e per la necessità, quindi, di salvaguardarsi in tutti i modi dalle persecuzioni a cui l'uomo la sottopone. Quante volte riesce a farla franca, menando ripetutamente strage in un medesimo pollaio e rendendosi sempre irreperibile!
La volpe non è solo furba, ma anche intrepida. Quando le accade di restare con una zampa intrappolata, si recide risolutamente con i denti l'arto imprigionato, filando via su tre zampe: per catturarla, bisogna giungere sul posto subito dopo che la trappola è scattata, altrimenti lei riesce ad averla ancora vinta.
Esemplare di volpe rossa
PERCHÉ SI ATTRIBUISCE ALLA LINCE UN «OCCHIO» ECCEZIONALE?
Nel linguaggio corrente, si dice che ha un «occhio di lince» colui che ha uno sguardo acuto e che sa cogliere ogni particolare. Ma non è vero che la lince abbia di queste capacità.
A volte ci lasciamo suggestionare dall'aspetto esteriore e non approfondiamo l'esame. Nel caso della lince, appunto, l'aspetto non corrisponde alla sostanza. Noi vediamo che questo felino ha occhi svegli, intensi, simili a quelli dei gatti allorché fissano insistentemente un topo, pronti a balzargli addosso. Così ci lasciamo impressionare dalla grinta, e attribuiamo al soggetto delle capacità che in realtà non possiede.
Anzi, a proposito di acutezza visiva, la lince non dimostra certo di avere il senso delle proporzioni, altrimenti, quando attacca le sue prede, userebbe un maggior discernimento.
Questo felino grigio-rossiccio, con orecchie lunghe, culminanti in ciuffi di peli eretti, presente anche in alcune zone delle nostre Alpi, ha l'abitudine di attaccare cervi e caprioli, e ne uccide di proporzioni tali e in tal numero, da non essere poi in grado di utilizzarne che una minima parte. Sicché non merita davvero di andar famoso per il suo «colpo d'occhio».
PERCHÉ IL CASTORO COSTRUISCE LE DIGHE?
Animale simpatico, il castoro, ingegnoso, che ha tutti i pregi dei Roditori (al cui genere appartiene, e nessuno dei loro difetti. Mentre la maggior parte dei Roditori usano la loro robusta dentatura per provocare danni, i castori la usano invece per compiere prodigiosi lavori di ingegneria.
Ad un'occhiata sommaria, il castoro assomiglia ad un grosso topo, lungo anche un metro, ma la sua pelliccia non ha nulla a che fare con quella grigia del topo: la natura l'ha infatti provvisto di un bel manto rosso-bruno, che lo mette al sicuro dal freddo ma che, purtroppo, gli attira il pericoloso interessamento dei pellicciai. Sono particolarmente pregiati i berretti ed i guanti di castoro.
Famosi cacciatori e mitici personaggi, come Davy Crockett, ad esempio, come non si separavano mai dal loro fucile, non dimenticavano mai nemmeno il loro caratteristico berretto di castoro, confezionato con un intero animale, dal pelo folto, morbido nonché resistente; inconfondibile soprattutto per la lunga coda schiacciata, foggiata a spatola.
Nella fantasia di tanti ragazzi, un tale berretto viene immancabilmente associato al fascino di una vita libera e avventurosa.
Il castoro vive lungo i fiumi ed i laghi, in territori dove la natura è ancora incontaminata: lo si può trovare in alcune parti d'Europa, come in Norvegia e in Siberia, ma soprattutto nell'America settentrionale (Alascka, Canada).
All'approssimarsi dell'inverno, i castori s'impegnano nella creazione di un ricovero in cui poter allevare la prole in tutta tranquillità. In questo lavoro, impiegano tutte le loro energie. Si sobbarcano in un'impresa davvero grandiosa e si dimostrano all'altezza delle loro ambizioni.
La loro forza consiste soprattutto nello spirito di collaborazione da cui sono animati: lavorano in vaste comunità familiari; i più vecchi ed esperti esplicano mansioni direttive.
Il castoro mette a punto il suo ricovero per l'inverno scavando lungo un corso d'acqua una confortevole tana: provvede a tappezzarla di schegge e di truccioli rosicchiati. Esternamente, il ricovero presenta una cupola di ramaglie così ben congegnate da assomigliare ad una capanna, se non addirittura ad un castello, quale potrebbe costruirlo un bambino d'ingegno. Sulla sommità, si apre un foro di aerazione, mentre il cunicolo di accesso va a sboccare sulla sponda del fiume, ad una decina di centimetri sotto il pelo dell'acqua.
Ma la fase più interessante dell'opera è quella riguardante la costruzione della diga. Per isolare il suo castello, il castoro provoca l'allagamento del terreno circostante, sbarrando il corso d'acqua con tronchi, rami intrecciati, fango e zolle d'erba. Dunque, le abitazioni dei castori sorgono nell'acqua: sono dotate, all'interno, di una piattaforma asciutta, sopra il livello dell'acqua; qui, all'inizio della primavera, nascono da due a otto piccoli, che vengono assiduamente curati per circa un anno dai genitori.
È incredibile la rapidità con cui i castori rodono alla base gli alberi che crescono presso gli argini, abbattendoli e sfrondandoli accuratamente.
A volte costruiscono dighe della lunghezza di duecento metri, larghe fino a sei metri, fatte con tronchi dello spessore di venti centimetri, infissi solidamente nel fondo. Sbarramenti di tal fatta possono portare alla formazione di laghi, che presto diventano la dimora dei pesci e degli invertebrati acquatici; in seguito sopraggiungono, attratti dall'acqua, anche altri animali e grossi mammiferi. I castori possono così contribuire in misura non trascurabile alla trasformazione dell'ambiente naturale.
PERCHÉ I PICCIONI VIAGGIATORI RIESCONO A RECAPITARE I MESSAGGI?
Tutti i piccioni hanno la tendenza a viaggiare; e sono ben dotati per coprire grandi distanze. Hanno infatti un tronco forte, muscoli pettorali sviluppatissimi, ali potenti: ottimi e resistentissimi volatori, dunque.
A volte si trasferiscono in una piccionaia che non è la loro, forse per allargare il loro giro di amicizie. Ma immancabilmente ritornano alla piccionaia d'origine, sempreché il padrone dei piccioni da cui si sono recati in visita, non li trattenga contro il loro volere!
L'addomesticazione dei piccioni risale ad epoche assai anteriori alla civiltà greca. Durante la soggezione all'uomo, molte mutazioni sono intervenute nelle varie razze domestiche ed è stato così possibile potenziare certe facoltà tipiche del cosiddetto «piccione viaggiatore».
Tra le razze di piccioni viaggiatori primeggia per qualità psichiche e fisiologiche quella belga.
Sono straordinari, questi volatili, per il senso dell'orientamento e la perseveranza con cui perseguono la loro meta, volando senza sosta anche per un'intera giornata. Essi non hanno paura dell'ignoto, sorretti da un istinto infallibile che li porta, attraverso territori sconosciuti, fino al luogo d'origine. Quindi, portati lontano dalla loro piccionaia, sanno infallibilmente farvi ritorno a velocità prodigiosa. È comprensibile come questa loro capacità possa venire opportunamente sfruttata legando ad una loro zampetta, mediante un anello, un messaggio scritto in un biglietto arrotolato Quando non c'erano ancora il telefono, il telegrafo e gli altri moderni mezzi di comunicazione l'impiego dei piccioni viaggiatori era assai diffuso. Oggi c'è chi li seleziona e li alleva soprattutto ad uso sportivo. Avvengono così avvincenti gare tra piccioni «fuoriclasse», su percorsi lunghissimi, che possono andare anche da un capo all'altro d'Italia.
PERCHÉ ALCUNI PESCI PRODUCONO SCARICHE ELETTRICHE?
Abbiamo visto in varie occasioni come gli animali mettano in atto accorgimenti difensivi ed offensivi per garantirsi la sopravvivenza.
La Natura ha dotato certi pesci di mezzi davvero eccezionali: chi non ha mai sentito parlare della torpedine o dell'anguilla elettrica? Queste specie di pesci sono forniti di organi elettrici, derivati da tessuto muscolare trasformato.
Una parte dei loro muscoli, cioè, anziché assolvere la funzione ad essi più propria, acquista caratteristiche del tutto particolari.
Gli organi elettrici sono costituiti da tre elementi fondamentali: uno stroma di sostegno, che funge da impalcatura dell'organo nel suo insieme; un connettivo mucoso, che esplica funzioni d'isolante; ed infine le cosiddette piastre elettriche, ciascuna formata da un elemento muscolare appiattito come una lamina, detto elettrolemma.
Come funziona un organo elettrico? Come può produrre delle scariche?
L'organo funziona secondo il principio del condensatore elettrostatico, secondo il principio cioè che una sostanza può essere elettrizzata per contatto e quindi caricata d'energia statica.
Sulle piastre elettriche si distende una rete derivata dal ramificarsi di un nervo motorio che, dietro un impulso proveniente dal cervello, eccita le piastre e le carica d'energia statica, come avviene in una bacchetta d'ambra strofinata con un panno di lana.
L'organo, che a questo punto si è caricato come un condensatore, emette una scarica di limitata potenza che mette in contatto le piastre provocandone il corto circuito, con conseguente emissione di scariche elettriche verso l'esterno.
La torpedine deve il suo nome al fatto che questo pesce, con le sue scariche elettriche, rende «torpide» le sue vittime. Le torpedini sono capaci di tramortire piccoli pesci, di cui si nutrono. Possono dare scariche intorno ai 30 volt, a cui è sensibile anche l'uomo. Hanno gli organi elettrici disposti lungo i fasci muscolari ai lati del tronco. Esse si servono delle loro caratteristiche anche come mezzo di orientamento. Emettendo scariche a bassissimo voltaggio, possono infatti evitare ostacoli insidiosi. Si è potuto stabilire che in molti casi gli impulsi elettrici funzionano anche come un sistema di comunicazione con altri individui della stessa specie. Caratteristiche simili hanno pure le razze, ma in misura trascurabile.
L'anguilla elettrica (o gimnoto) raggiunge i due-tre metri di lunghezza; vive nelle acque dolci dell'America Centrale e Meridionale, riesce ad emettere scariche assai potenti, del valore di circa 350 volt; può fulminare anche a distanza animali di notevoli dimensioni, e può stordire anche l'uomo ed i più grossi Mammiferi. I suoi organi elettrici derivano dai muscoli della coda.
Tra i pesci che «danno la scossa», merita una menzione anche il Malatteruro (Malapterurus electricus), che raggiunge facilmente la lunghezza di un metro; in esso gli organi elettrici formano un involucro che ne riveste tutto il corpo; vive nei fiumi dell'Africa tropicale e lo si può trovare anche lungo il corso del basso Nilo. Emette scariche del valore di 70 volt.
PERCHÉ LE FARFALLE HANNO VITA ASSAI BREVE?
In termini scientifici, le farfalle vengono chiamate Lepidotteri. Non a caso si chiamano così, ma perché questa parola, derivante dal greco, indica il fatto che le ali delle farfalle sono coperte di squame. Le membrane alari sono, di per sé, incolori, mentre le squame sono variopinte, innumerevoli, disposte sulle ali come le tegole di un tetto.
A toccare le ali di una farfalla, queste si scoloriscono e ci resta attaccata alle dita una finissima polverina colorata. Le squamette si disgregano facilmente aderendo alle nostre dita; perciò, per afferrare senza sciuparle le ali di una farfalla, occorre una grande delicatezza di tocco.
Meglio affidare l'impresa a chi ne è all'altezza: agli entomologi, agli amatori, ai collezionisti. Collezionare farfalle non è uno scherzo! Chi si proponesse di completare la collezione, dovrebbe mettere insieme ben 130.000 esemplari: tante infatti sono le specie ufficialmente catalogate.
Le farfalle si adattano ai climi più vari, e si trovano quindi rappresentate ovunque nella Terra, eccetto che nell'Antartide.
Le ali sono costituite da una membrana sdoppiata in due foglietti; le nervature ne formano l'impalcatura di sostegno e danno ricetto ai vasi sanguigni, ai nervi ed alle trachee. I colori delle ali possono essere di natura sia chimica che fisica: chimica, quando derivano dai pigmenti colorati; fisica, quando sono dovuti ad un fenomeno ottico per cui certe tinte o sfumature variano secondo l'azione della luce.
Le farfalle che hanno le ali più vivacemente colorate sono quelle appartenenti al gruppo dei Ropalòceri.
L'apertura alare varia dai tre millimetri di alcuni Nepticulidi, ai trenta centimetri della Nottuide sudamericana.
Si ritiene che le antenne siano sede dell'olfatto, dato che presentano setole e scaglie sensoriali. I Lepidotteri vanno soggetti ad una metamorfosi che comprende quattro stadi: uovo, larva o bruco, ninfa o crisalide, insetto adulto o farfalla vera e propria.
La femmina depone un numero di uova che varia a seconda della specie: può andare da poche decine ad alcune migliaia. Le uova vengono generalmente deposte su alcuni tipi di piante; vi sono però delle farfalle che effettuano la deposizione a caso, senza curarsi del genere di pianta.
Non è sempre vero che il «buondì si vede dal mattino»: infatti il bruco, o larva, quando esce dall'uovo, non dà affatto l'impressione d'essere destinato a divenire una splendida farfalla.
Alcuni bruchi sono ricoperti di peli urticanti ed è meglio starne alla larga; ve ne sono anche di quelli che, se disturbati, emettono odori nauseanti. Il loro apparato boccale è di tipo masticatore, dotato di robustissime mandibole. Sul labbro inferiore sbocca il condotto di ghiandole atto a secernere la seta.
Essi sono dannosi all'agricoltura, poiché divorano le foglie, i frutti ed il legno medesimo delle piante. A volte però eliminano parassiti ancor più dannosi di loro. Non è quindi bene distruggerli indiscriminatamente.
In certe specie, come quelle di alta montagna o le Xilofaghe, la durata della vita larvale è di due o tre anni. Ma vi sono anche delle specie che raggiungono la maturità in soli quindici giorni. Terminato lo stadio larvale, il bruco si trasforma in crisalide. Il processo di trasformazione può svolgersi su di un ramo, o nel cavo di un albero, o sotto la corteccia, od anche su una parete di pietra, o sotto un sasso.
La crisalide può essere nuda o racchiusa in un bozzolo. Per fabbricarsi il bozzolo, essa si avvale della sua capacità di emettere fili di seta, nei quali piano piano si avvolge. All'interno del bozzolo, poi, la crisalide si trasforma in farfalla.
Alcuni organi propri della larva vengono dissolti e digeriti da fermenti e successivamente si formano quelli dell'adulto. Organi che nella larva esistevano solo allo stato di microscopici gruppi di cellule, adesso si sviluppano rapidamente.
L'apparato boccale di tipo masticatore del bruco si trasforma in una sorta di lunga tromba (spiritromba) atta a succhiare. L'insetto tiene la spiritromba arrotolata a spirale sotto il capo e la distende per nutrirsi del nettare dei fiori.
Anche le ali si sviluppano da un gruppo di cellule che nel bruco era già presente.
La crisalide non si nutre, né espelle residui; la respirazione è assai ridotta. Anche la durata di questo stadio presenta notevoli sproporzioni tra specie e specie: va da un minimo di una o due settimane ad un massimo di uno o più anni.
Avvenuta la «schiusa», l'insetto non è in grado di spiccare subito il volo. Bisogna che prima le sue ali si asciughino e si irrigidiscano.
Inizia così l'esistenza della vera e propria farfalla: un'esistenza la cui durata varia da specie a specie, così com'era avvenuto nei precedenti stadi. Ma, per tutte le specie di farfalle, la vita è breve. Breve soprattutto se raffrontata alla complessiva durata della vita del bruco e della crisalide. Le specie più longeve, dalla schiusa, che avviene in estate, sopravvivono fino alla deposizione delle uova, che avviene in primavera. E si consideri che, durante la cattiva stagione, cioè per oltre la metà della loro vita, cadono in una sorta di letargo. Queste farfalle particolarmente longeve non costituiscono comunque nemmeno il 2% di tutte quelle esistenti.
Molte specie non vivono che pochi giorni: appena il tempo di riprodursi. Vivono poco perché hanno già vissuto abbastanza come bruchi e come crisalidi. Una volta raggiunto lo stadio di splendide farfalle, la fine è ormai prossima.
In compenso, non conoscono lo squallore che di solito accompagna la vecchiaia. Per loro la vecchiaia coinaide con il periodo più ricco e radioso. È quindi il caso di dire che la vita delle farfalle, pur finendo presto, finisce in bellezza!
Diverse specie di farfalle
PERCHÉ DA ALCUNI BACHI SI PUO' RICAVARE LA SETA?
All'ordine di insetti comunemente chiamati farfalle appartiene anche la famiglia dei Bombicidi, ossia dei «bachi da seta»; solo che non hanno molte probabilità di raggiungere lo stadio di farfalle: vengono infatti uccisi in gran quantità al termine dello stadio larvale. In un primo tempo, l'uomo usa verso i bachi da seta tutti i riguardi: li protegge e li nutre con abbondanti razioni di foglie di gelso. Ma non appena hanno filato il loro bozzolo e si accingono a trasformarsi in farfalle, li immerge in un bagno di acqua calda che ne provoca la morte. Soltanto così è possibile dipanare il filo di seta che forma il bozzolo. Il bruco ha intessuto il suo bozzolo conferendogli una grande compattezza: si pensi che il filo impiegato può raggiungere i novecento metri di lunghezza! Abbiamo già descritto il processo di sviluppo delle farfalle in generale. Ma soffermiamoci brevemente su quello del baco da seta in particolare. Esso sverna allo stato di uovo; lo sviluppo embrionale si completa nella primavera. La larva, o baco propriamente detto, è un bruco di colore giallo o bruno, cosparso di peli; compie il suo sviluppo ln un mese circa. In questo tempo raggiunge una lunghezza trenta volte superiore a quella della nascita. Al termine della vita larvale il baco cerca un sostegno a cui fissare il filo di seta per tessere il bozzolo.
La seta viene emessa da due ghiandole dette «serigene», situate vicino alla bocca: queste secernono un liquido che, a contatto con l'aria, si indurisce formando un filo col quale, in capo a tre o quattro giorni, il baco riesce ad ultimare il suo bozzolo.
Se, a questo punto, l'uomo non interviene per sottrargli la seta, il baco supera lo stadio di crisalide e consegue il suo pieno sviluppo. Essendosi costruito un bozzolo particolarmente resistente, dovrà aprirsi un varco emettendo un liquido alcalino atto a facilitare l'operazione.
L'insetto adulto vive in media tra i dieci e i quindici giorni: non si nutre e non vola; ha comunque una vita più lunga di altre specie di farfalle. La femmina, che ha l'addome più grosso e tozzo del maschio, depone in media quattrocento-cinquecento uova.
L'allevamento del baco da seta a scopo industriale vien detto «bachicoltura». I primi allevamenti di bachi furono fatti in Cina; pare che l'iniziativa sia partita dalla moglie dell'imperatore Huang-Ti, intorno al 2600 avanti Cristo. Sia in Cina che nel Madagascar le crisalidi del baco da seta sono anche apprezzate come alimento.
Vediamo quali sono le fasi dell'allevamento di tipo industriale.
Di fondamentale importanza è la scelta dei bozzoli dai quali nasceranno i riproduttori. Essi vengono posti su speciali telai detti «arpe». I riproduttori costituiscono una categoria di privilegiati: a loro è infatti consentito il cosiddetto «sfarfallamento»: possono cioè uscire vivi dal bozzolo.
Avviene quindi l'accoppiamento, effettuato di solito mediante l'incrocio di razze diverse, allo scopo di fondere insieme le migliori caratteristiche di ciascuna razza.
Le femmine fecondate vengono poste entro piccoli sacchetti di carta (celle) contrassegnati da numeri, ove, durante la stagione estiva, depongono le uova. Dall'estate all'autunno, le uova vengono conservate in locali ben arieggiati, per favorirne la prima fase di sviluppo. Successivamente vengono poste entro frigoriferi a temperatura costante di due-cinque gradi C., per il cosiddetto svernamento.
Infine l'uovo viene incubato, viene cioè posto nelle condizioni ideali perché possa schiudersi: in questa fase, la temperatura deve essere superiore ai 15°C. Quando il bacolino sguscia dall'uovo, la temperatura dev'essere ulteriormente innalzata, fino a raggiungere i 22-24° C.
I bachi sono allevati su graticci, oppure sul cosiddetto «cavallone friulano», formato da pali riuniti a triangolo, col vertice in alto. Al termine della vita larvale, vengono mandati «alla frasca», per il cosiddetto «imboscamento»; vale a dire che vengono fatti salire su steli di colza, o di ginestra o d'erica.
La rimozione dei bozzoli (sbozzolatura) avviene sei-dieci giorni dopo l'imboscamento. I bozzoli destinati alle filande sono sottoposti al trattamento di cui si è già fatto cenno: vengono cioè immersi in acqua calda o sottoposti ad essiccazione, allo scopo di uccidere la crisalide e di impadronirsi della seta.
Prima che la seta sia pronta per essere trasformata nelle molteplici varietà di tessuto, sono necessari altri processi, come la pulitura, la filatura, la cottura.
Quest'ultimo trattamento è riservato alle sete di qualità più pregiata, alle quali si vuole conferire una maggiore morbidezza e lucentezza.
La seta si presta ottimamente ad essere tinta per la bellezza e l'armonia dei colori che assume: prima però va sottoposta alla «sgommatura», un processo sbiancante che toglie dal tessuto la sericina e ogni eventuale altra impurità. Oggi, a causa del suo notevole costo, si tende a sostituirla con prodotti sintetici simili che, pur presentando con la seta una notevole rassomiglianza, non ne eguagliano la morbidezza e il pregio.
FASI DELLA VITA DI UN BOMBICE
1) Verso la fine di luglio la crisalide, diventa un insetto adulto, esce dal bozzolo aprendosi un varco grazie all'emissione di un liquido alcalino che scioglie l'involucro serico.
2) L'insetto adulto si presenta come una farfalla di colore bianco che non si nutre e non vola. La femmina, dall'addome pronunciato, depone 400-500 uova.
3) Dalle uova deposte escono le larve.
4) La larva o baco, è un insetto voracissimo che si ciba essenzialmente di foglie di gelso.
5) Il baco si presenta di un colore giallo o bruno ed il suo corpo è completamente cosparso di peli. Il suo sviluppo si compie nel giro di un mese raggiungendo una lunghezza trenta volte superiore a quella della nascita.
6) I bachi da seta vengono allevati dall'uomo in graticci preparati con rametti di piante di brughiera ove rimangono fino al termine della vita larvale.
7) Per mezzo di due ghiandole «serigene» il baco si avvolge in un involucro entro il quale esso si trasforma in crisalide.
8) Solo i bozzoli destinati alla riproduzione possono completare il loro ciclo. Dal bozzolo esce infatti la farfalla viva che è stata preventivamente selezionata.
9) I bozzoli destinati all'estrazione della seta vengono immersi in acqua calda per uccidere la crisalide e quindi inviati all'industria.
PERCHÉ ALCUNE SPECIE ANIMALI VANNO ESTINGUENDOSI?
In epoche passate, la Terra era popolata da organismi animali e vegetali diversi dagli attuali.
Di quegli antichi esseri viventi sono giunti fino a noi numerosi resti fossili conservati negli strati della crosta terrestre. Di alcuni animali da gran tempo estinti, ci restano perfino cadaveri interi congelati, com'è il caso del Mammùth, che è il più noto dei mammiferi fossili. Se ne sono trovati alcuni esemplari in perfetto stato di conservazione in Alaska e in Siberia.
Abitante tipico delle regioni fredde, dal corpo ricoperto da una fitta lanuggine, questo elefante primigenio dalle enormi zanne ripiegate a spirale, era un tempo diffuso in molte regioni della Terra.
Si è poi ridotto a vivere in regioni sempre più ristrette in conseguenza del graduale ritiro dei ghiacciai.
Col trasformarsi delle condizioni climatiche e delle relative caratteristiche del suolo, animali come il Mammùth avrebbero dovuto adattarsi al nuovo ambiente: non essendoci riusciti, sono inesorabilmente scomparsi.
Questo avveniva settemila anni fa, al termine dell'ultima glaciazione.
È noto che nella storia del nostro pianeta si sono verificate almeno quattro glaciazioni e tra qualche altro migliaio d'anni potrà verificarsi per la quinta volta una generale espansione dei ghiacci, con un nuovo radicale sconvolgimento delle condizioni ambientali. Potrà allora avvenire l'estinzione di molte specie che attualmente popolano ampie regioni della Terra.
Oltre ai perturbamenti geologici e climatici, vi sono anche altri fattori che possono provocare la scomparsa di tutti i rappresentanti di una determinata specie, come il troppo scarso potere di moltiplicazione in confronto al tasso di mortalità; oppure l'acuirsi del contrasto tra specie diverse che si trovino a dover competere l'una con l'altra. Ma ci sono specie la cui scomparsa non va imputata a cause naturali, sibbene ad azioni insensate da parte dell'uomo. Riguardo alla graduale scomparsa dei bisonti, ad esempio, l'uomo non ha che da rimproverare se stesso.
Il Bisonte europeo fu quasi completamente sterminato negli anni intorno al 1920. Ne sono stati conservati pochissimi esemplari nei giardini zoologici: la specie è ormai sul punto di estinguersi definitivamente.
Il Bisonte americano una volta era diffuso in una regione compresa tra l'Oceano Atlantico e le Montagne Rocciose. Sul finir del secolo scorso sono state compiute assurde stragi, alle quali sono sopravvissuti ben pochi esemplari. Si teme che anche essi siano ormai in via di estinzione, nonostante le misure adottate per proteggerli.
Si pensi che, quando il Far-West era ancora terra di conquista, i bisonti venivano uccisi come mosche, così, come si spara ad un bersaglio inanimato, oppure per utilizzarne poche parti pregiate, come la lingua, che costituisce un boccone prelibato.
Gli Indiani utilizzavano invece ogni parte del bisonte, che per loro era la principale fonte di cibo, di indumenti, di coperte e di molti altri prodotti di prima necessità. Essi lo rispettavano religiosamente; quando lo uccidevano, non andavano mai oltre le esigenze di una sobria esistenza. Ci sono personaggi rimasti celebri per aver ucciso molti bisonti e, peggio ancora, pure molti Indiani. Bufalo Bill è famoso appunto per questo (Il bisonte americano viene anche chiamato, erroneamente, «Bufalo»). Perché l'alone di eroismo che circonda Bufalo Bill vada definitivamente in fumo, basti ricordare che quando capitò in Italia con il suo circo, egli fu sfidato da un buttere maremmano ad una gara di tiro e di doma, e venne facilmente sconfitto.
Una sorte analoga a quella dei bisonti rischiano di subire le balene.
La caccia alla balena s'è iniziata fin dal Medioevo. E da allora è fiorito tutto un settore dell'industria che usa come materia prima la carne e tutte le altre sostanze ricavabili dalle balene.
Altissimo è il rendimento economico che si può ottenere da una sola balena: fino a 100 Kg. di fanoni (le stecche di balena) e 30.000 litri di olio. Già da tempo, in seguito alla caccia spietata di cui sono stati fatti oggetto, i Cetacei superstiti si sono andati concentrando in zone limitate ai mari freddi che contornano le calotte polari. Dal 18° al 20° secolo la caccia ha quasi fatto scomparire le balene anche dai mari artici, così che le flottiglie baleniere hanno cominciato a battere soprattutto i mari dell'Antartide.
È stata molto praticata anche la caccia «pelagica», cioè senza basi fisse. Per questo tipo di caccia vengono usate gigantesche navi-fattoria (o navi-officina), vere e proprie basi galleggianti, dotate di mezzi per la lavorazione e la conservazione delle carni e dei grassi.
Alla fine è stata presa la decisione (purché non sia arrivata troppo tardi!) di regolare la caccia alla balena mediante convenzioni internazionali, con limitazioni intese a salvaguardare il patrimonio faunistico.
La natura non consente alle balene di bilanciare tutte le perdite subite dalla specie, dato che la femmina non partorisce più di un piccolo per volta.
Scheletro di mammuth
PERCHÉ NON SI PUO' CACCIARE IN TUTTI I PERIODI DELL'ANNO?
A parte pochissime regioni remote, non ancora raggiunte dalla civiltà, la caccia non viene più praticata per scopi alimentari, ma solo per fare dello sport. Fino dalle sue origini l'uomo ha acquisito l'istinto del cacciatore, si è impegnato in un nobile sforzo fisico ed intellettuale, prendendoci gusto, elaborando le tecniche più svariate ed avvalendosi di un'infinità di mezzi e strumenti offensivi: si può anzi dire che la maggior parte delle armi conosciute sono state inventate ai fini della caccia, prima che a quelli della guerra.
Finché il numero degli esseri umani s'è mantenuto entro limiti compatibili con l'estensione dei territori di caccia, l'economia e la politica non hanno certo rappresentato quei grossi problemi che invece rappresentano oggi. Finché ogni cacciatore ha avuto a sua disposizione una decina d ettari di terreno popolato di selvaggina, ha potuto evitare di rompersi la schiena per sbarcare il lunario; inoltre, ha potuto evitare di entrar in dissidio con i cacciatori circonvicini.
L'addensarsi della popolazione ha indotto i membri di tribù diverse ad accapigliarsi per mantenere un territorio commisurato alle «bocche» da sfamare. Le guerre hanno cominciato a susseguirsi con sempre maggior frequenza, con il risultato di guastare gravemente i rapporti tra gli uomini, senza migliorare affatto le condizioni della caccia: sempre più i cacciatori, insomma, sempre meno la cacciagione disponibile.
Sicché, giunti ai tempi nostri, la selvaggina si è talmente rarefatta che le leggi civili si sforzano d'impedirne, con opportuni provvedimenti, la totale distruzione. Il fatto è che l'uomo non vuol rinunciare alla caccia. Non vuol rinunciare a quello che un tempo è stato un fatto di economia e, al tempo stesso, un gioco avvincente. Oggi è assai raro il caso che una necessità economica sia anche una forma di divertimento. In genere ci si rassegna a separare il «piacere» dal «dovere». Ma e comprensibile che l'uomo provi un'acuta nostalgia per la vita condotta dai suoi antichi progenitori: ci sono perciò molte persone che approfittano dei giorni festivi per battere la campagna in cerca di selvaggina.
Ma non lo si può fare in qualsiasi periodo dell'anno. Bisogna che venga tutelata, infatti, la riproduzione della selvaggina, per cui la legge vieta la caccia in particolar modo durante il periodo che va da gennaio a settembre.
Ad alcune specie di animali in via d'estinzione come lo stambecco e l'orso, non si può affatto sparare, se non entro limiti rigidamente stabiliti. Ci sono poi parecchi animali che, pur non essendo protetti dalla legge, sarebbe meglio lasciar tranquilli. Il lupo, per esempio, o la volpe.
Li si prende a fucilate anche quando si trovano in luoghi dove non possono recare danno alcuno. Ciò è forse dovuto all'abitudine che abbiamo ereditato dai nostri progenitori, di non sopportare i concorrenti nella caccia, si tratti di animali predatori oppure di uomini venuti a battere una zona che consideriamo esclusivamente nostra.
Il lupo non è così terribile come lo si dipinge: quando assale è solo per fame, ed assai raramente prende di mira l'uomo. Mentre l'uomo perseguita il lupo ben oltre lo stretto necessario. E ciò finisce poi col tornare a scapito dell'uomo stesso. Difatti, non si ci può accanire contro una specie di animali senza alterare l'equilibrio di tutta la natura. Lo sapeva bene Noè, che mise nell'arca una coppia di ciascuna specie di creature.
Spetta unicamente alla natura decretare l'estinzione o la sopravvivenza d'una specie. L'uomo deve lasciare in pace il lupo, come ogni altro animale, almeno nei periodi cruciali della riproduzione.
Ma la voracità del lupo, si dirà, non può che recar danno alle altre creature. E invece anche gli aspetti negativi di questa fiera possono, talvolta, rivelarsi positivi, ad inquadrarli nell'ordine naturale delle cose.
Basti il seguente esempio. Nelle zone artiche, per molto tempo si diede un premio ai cacciatori per ogni lupo ucciso. Si credeva che solo così, mediante un completo sterminio, si potessero salvare i grandi allevamenti di renne, costantemente insidiati dai lupi.
Ma è accaduto che, una volta sterminati i lupi, le renne si sono moltiplicate a ritmo frenetico, i pascoli sono divenuti insufficienti, e le bestie sono morte quasi tutte di fame.
PERCHÉ SI AMMAESTRANO GLI ANIMALI?
L' uomo, fin da epoche remotissime, ha reso domestici molti animali e li ha utilizzati secondo le loro specifiche qualità. Ma, oltre che addomesticarli, ha sempre tentato di fare di più nei loro confronti, ha cercato cioè di ammaestrarli, di far compiere loro esercizi sempre più difficili per mettere alla prova la loro intelligenza e per dare spettacolo.
Nota è la figura dell'ammaestratore che, un tempo nelle piazze, oggi nei circhi, fa compiere alle intelligenti bestiole salti mortali e capriole, corse in monopattino e così via.
Il circo, infatti, accoglie tradizionalmente ogni tipo di ammaestratore, sia quello di animali domestici (cani, piccioni, cavalli etc.) sia quello di animali selvatici (delfini, foche, elefanti, scimmie).
Un posto a parte spetta al «domatore», l'uomo che rende mansuete le bestie feroci, riuscendo anche a far loro compiere degli esercizi.
In un circo il numero dei leoni e delle tigri nella gabbia è ancora di sicuro successo: lo spettatore, infatti, davanti alle fiere ruggenti, aspetta inconsapevolmente di assistere ad una furibonda lotta tra bestie e domatore e quando vede che l'uomo domina la latente ferocia dei leoni e delle tigri e, tra i loro terrificanti ruggiti, si muove tranquillamente ed ordina e costringe le bestie a star ferme o a muoversi, a saltare in un cerchio di fuoco, a camminare su un'asse in equilibrio, a compiere caroselli intorno alla gabbia... non può non applaudire!
Se non ci si meraviglia eccessivamente che bestiole intelligenti come i cani e le scimmie riescano a compiere difficili esercizi, restiamo certo perplessi e stupefatti di fronte a delle bestie feroci ammaestrate.
Come è possibile? L'ammaestramento delle bestie feroci si ottiene snaturandole a poco a poco, condizionando il loro comportamento e facendo in modo che da feroci diventino mansuete. Se nella foresta leoni e tigri dovevano la loro sopravvivenza alla forza ed alla ferocia, caratteristiche che consentivano loro di mangiare tutti i giorni, in cattività li si convince che per meritarsi il cibo il loro comportamento deve essere esattamente l'opposto.
È piuttosto difficile spiegare, con precisione sistematica, i metodi usati dagli ammaestratori o domatori per ammaestrare gli animali. Ognuno, si può dire, possiede una sua tecnica personale i cui segreti custodisce gelosamente.
Tutti comunque si basano sulla conoscenza profonda dell'animale e delle sue reazioni; premi e punizioni si alternano in modo che l'animale è portato a eseguire i suoi compiti secondo la volontà dell'ammaestratore, che agisce condizionandone i riflessi. L'animale finisce così per compiere, dietro specifico comando, una determinata azione; la difficoltà degli esercizi, poi, è commisurata al grado d'intelligenza della specie, all'intensità della preparazione e all'abilità dell'ammaestratore.
Ma la buona riuscita dell'ammaestramento non dipende solo dalla validità tecnica del metodo d'insegnamento: possiamo senz'altro affermare che essa dipende dalla perizia dell'uomo che, per sottomettere completamente l'animale, deve imparare a conoscerlo a fondo, a dominarlo con la forza della personalità, della presenza e della voce, e soprattutto ad amarlo. Un ammaestratore che si fa odiare dalle proprie bestie non è un buon ammaestratore: gli animali, infatti, «sentono» che la crudeltà dell'uomo è un'espressione di viltà e di paura e finiscono, prima o poi, per rivoltarglisi contro.
È necessario ricordare, infine, che l'uomo ammaestra gli animali non solo per scopi spettacolari. Noto, infatti, è l'impiego dei cani nelle operazioni di polizia e per la conduzione dei ciechi, e quello delle scimmie, dei delfini e di molti altri animali intelligenti, per la ricerca sperimentale e scientifica.
PERCHÉ IL MAIALE SI ROTOLA NEL FANGO?
L'uomo ha allevato il maiale forse fin dall'età della pietra. Le abitudini di questo «pachiderma» (greco: dalla pelle spessa) appartenente all'ordine degli Artiodattili ed alla famiglia dei Sùidi, hanno fatto sì che il termine «maiale» sia spesso usato come sinonimo di «sporco».
Diciamo subito, per giustificare il maiale, che la sua invisa abitudine di rotolarsi nel fango è frutto di necessità e non di malcostume, ed è dovuta alla particolare natura della sua pelle. Questa, infatti, non è una pelle simile a quella dell'uomo, ma una spessa cotenna coperta di pelame setoloso. Il maiale, dunque, per evitare che la cotenna si secchi e si crepi, e per mantenerla umida e grassa, si rotola nel fango.
Questa abitudine non deve stupirci, soprattutto se consideriamo che il maiale appartiene alla stessa famiglia degli Ippopotami, i quali, come saprete, vivono in acqua durante il giorno e ne escono solo di notte, sempre per lo stesso motivo: la loro pelle, infatti, teme l'aria e il calore del sole che la disseccano pericolosamente e preferisce invece il fresco e «grasso» contatto della mota dei fiumi
PERCHÉ IL LEONE VIENE CHIAMATO «IL RE DELLA FORESTA»?
È difficile che un sovrano porti impressi sul volto e nella persona i segni della sua regalità; se vuole incutere rispetto, deve ricorrere allo scettro, alla corona, alle vesti sfarzose Ma ai giorni nostri anche questi segni esteriori di potenza lasciano piuttosto scettici, tanto è vero che la monarchia va rapidamente decadendo in ogni parte del mondo.
Si può comunque prevedere che, anche quando tra gli uomini non ci sarà più alcun sovrano, il leone continuerà tuttavia ad essere considerato il re della foresta.
Infatti, senza bisogno d'essere incoronato e infiocchettato, questo carnivoro della famiglia dei Felidi, con la sua folta criniera e la sua figura agile e robusta, è l'immagine stessa della regalità. I maschi più grossi possono raggiungere un peso di 250 chilogrammi; le femmine, che sono prive di criniera, raggiungono al massimo il peso di 150 chilogrammi. I piccoli sono inizialmente maculati, ma le macchie scompaiono in capo a sei mesi.
Nell'antichità classica, l'area di diffusione del leone era molto più estesa di oggi. Sono stati rinvenuti infatti resti fossili di leoni in quasi tutta l'Europa.
Attualmente i leoni sono diffusi in quasi tutte le regioni dell'Africa e dell'Asia. Essi prediligono le pianure aperte ed erbose, spingendosi talora verso le zone montuose.
Nell'America settentrionale sono diffusi i cosiddetti Leoni di montagna o Puma, che vivono appunto nelle regioni montagnose. Il loro peso varia dai 50 ai 100 chilogrammi; hanno una grave pecca: sono incapaci di ruggire!
La specie più imponente è quella del Leone berbero, che vive nella regione dell'Atlante, ma è oggi divenuto assai raro.
Durante il giorno, il leone ama fare la siesta sdraiato sull'erba, ed allora è pigro, tranquillo, ben poco aggressivo.
Solo al calare della notte diviene il feroce predatore che non conosce ostacoli né limiti alla sua audacia. Assale più che altro i bufali, le antilopi, le gazzelle e le zebre. Si apposta di solito accanto ad una pozza d'acqua e quando un animale si avvicina, gli balza addosso, abbattendolo rapidamente.
Col suo potente ruggito, il leone fa tremare anche gli animali meno impressionabili.
È dunque naturale considerare il leone come simbolo di forza e di maestoso prestigio, anche se a volte, in lui, prevale la belva, violenta e sanguinaria; ma la sua più profonda natura è aperta e generosa, il suo comportamento è franco e coraggioso. Quando si vuol lodare il coraggio di una persona, non si dice forse che ha un «cuor di leone»?
Quel famoso re d'Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone, va menzionato come uno dei pochi sovrani in cui, forse, l'importanza della carica regale ha coinciso con il valore umano della persona. Un grande narratore di favole, Esopo, ha messo in ridicolo coloro che invece vogliono apparire come leoni senza averne la minima possibilità. È nota la storia di quell'asino che si veste della pelle di un leone, sperando così di venire scambiato per il re della foresta.
Anche ammesso che il travestimento sia perfetto, com'è possibile che un asino imiti il ruggito del leone?
E così, dalla favola di Esopo, è derivato il seguente modo proverbiale: «Al raglio, si vedrà che non è un leone».
PERCHÉ LA SCIMMIA IMITA L'UOMO?
Quando si parla di scimmie ci si riferisce all'ordine dei Primati, i Mammiferi anatomicamente più somiglianti all'uomo.
Le loro caratteristiche principali sono gli arti che presentano il pollice e l'alluce opponibili, come il pollice della mano umana, le piante delle mani e dei piedi e parte del viso, che sono nude ed infine la forma del cranio che ricorda sorprendentemente quella dei nostri più lontani progenitori, con la fronte bassa e il prognatismo più o meno accentuato.
L'ordine dei Primati si divide in due Sottordini i Catarini e i Platirini: i primi abitano il Vecchio Mondo (Asia, Africa), i secondi il Nuovo Mondo (le Americhe).
I Catarini hanno il setto nasale stretto e le narici ravvicinate e rivolte verso il basso, e da questa caratteristica derivano il nome. Generalmente non hanno coda e se ce l'hanno non è prensile, non riesce cioè ad avvolgersi intorno ad un sostegno. Posseggono, come l'uomo, trentadue denti. In molte specie la pelle delle guance forma due rigonfiamenti (borse guanciali); in comunicazione con la bocca e le natiche presentano tipiche callosità di colore rosso e violaceo.
I Platirini hanno invece il setto nasale largo e narici distanziate, sono provvisti di coda prensile e privi di borse guanciali e di callosità alle natiche. Hanno 36 denti invece di 32.
I Catarini sono le scimmie che più assomigliano all'uomo, ma specialmente una famiglia si contraddistingue per la straordinaria rassomiglianza anatomica con l'uomo, la famiglia degli Antropomorfi (= dalla forma umana). L'uomo stesso, infatti, nel classificarle, ha tenuto conto di questa rassomiglianza attribuendo loro il nome proprio. Tra le scimmie antropomorfe le maggiori sono il Gorilla, l'Orang-Utan e lo Scimpanzé.
Impressionanti sono, nel Gorilla, l'aspetto, la mole, l'eccezionale robustezza del corpo, le dimensioni (può raggiungere i due metri di altezza!) l'espressione feroce e nello stesso tempo intelligentemente umana. Vive in Africa conducendo vita nomade in seno al proprio nucleo familiare e si ciba di germogli, di frutta e di radici.
Nonostante la forza spaventosa e l'aspetto feroce il Gorilla è sorprendentemente timido e riservato, non attacca l'uomo e quando è disturbato si limita a mostrargli la sua collera urlando selvaggiamente e battendosi il torace che risuona come un tamburo.
L'Orango è meno robusto del Gorilla, ha le braccia molto lunghe, fronte più alta e diritta, cranio e muso tondeggianti e aspetto assai meno feroce. Vive nelle foreste del Borneo e di Sumatra, conduce vita arboricola cibandosi di frutti. Lo Scimpanzé è più piccolo dell'Orango, ha le braccia più corte e le gambe più grosse. Vive in Africa, ha un carattere assai socievole e, mentre il Gorilla e l'Orango non si adattano a vivere in cattività, lo Scimpanzé è la scimmia antropomorfa più facilmente addomesticabile.
Ed ora parliamo della tendenza delle scimmie, ed in particolare delle Antropomorfe, ad imitare le azioni dell'uomo, Questa tendenza è facilmente spiegabile considerando il loro aspetto: come potrebbe un animale tanto simile all'uomo (tanto che lo si considera un probabile nostro antenato!) non imitarlo? E come possiamo noi, osservando una scimmia che sbuccia una nocciolina, che afferra un oggetto, che ride o piega la testa con aria sorniona, non sentirci imitati?
L'imitazione è dunque un dato di fatto, insito nella forma stessa del corpo delle scimmie, e non ci deve stupire se è anche spesso un segno distintivo del carattere delle specie più vivaci e socievoli. Oltre alla forma le scimmie hanno in comune con noi una buona dose d'intelligenza, essendo capaci di compiere esercizi abbastanza complessi con difficoltà insuperabili da tutti gii altri animali. Queste loro capacità sono dovute ad un complesso di fattori quali la possibilità di procedere semi-eretti, di usare le mani quasi come gli uomini grazie al pollice opponibile, ed infine il volume del cervello, inferiore sì a quello dell'uomo ma qualitativamente superiore al cervello di gran parte degli altri animali.
PERCHÉ SI DICE CHE LE CICOGNE PORTANO I BAMBINI?
Le cicogne, appartenenti all'ordine dei Ciconiformi, sono uccelli dalle lunghe zampe e spesso, in alcune delle diciassette specie note, presentano chiazze nude sul collo e sulla testa, colore del piumaggio e becchi diversi. Sono muti e comunicano tra loro facendo schioccare il becco. Il loro procedere è dignitoso e regale, e questa posatezza proverbiale viene meno solo nel periodo degli amori, quando si lanciano in danze sfrenate, saltando e scuotendo la testa.
Si cibano di rane, piccoli serpi, insetti acquatici che fanno schizzar fuori dal fango pestandolo vigorosamente. Entrambi i genitori si prendono cura dei piccoli, che nascono inetti. Sono grandi trasvolatrici, potenti e nello stesso tempo eleganti nel volo. Nidificano sugli alberi, sulle scogliere e sui tetti delle abitazioni.
Nei paesi dell'Europa settentrionale la Cicogna bianca ha da tempo preso l'abitudine di nidificare sui tetti delle case, soprattutto in considerazione della calorosa accoglienza che gli abitanti della casa le tributano, ritenendola un segno di buon augurio. Si è giunti perfino a prepararle il nido affinché al termine della migrazione annuale, essa lo trovi già pronto e non si affatichi ulteriormente a cercare il posto adatto. Questa abitudine delle cicogne è servita a spiegare ai bambini come sono nati, e la leggenda nordica, diffusasi in tempi abbastanza recenti anche nel Sud Europa, è stata adottata di buon grado, sostituendo a poco a poco antiche e più ingenue spiegazioni, come quella, ad esempio, secondo cui i bambini si trovano sotto i cavoli.
In passato si è ritenuto normale fornire ai bambini, giustamente curiosi intorno al misterioso e meraviglioso evento della loro nascita, una spiegazione fiabesca, tanto più se ricca di fascino. Ma se è innegabile la poesia inerente all'immagine della cicogna, uccello pacifico e di buon augurio, che si posa sui tetti delle case e consegna, ben avvolto in un panno, il roseo e paffuto bébè, è pur vero che i genitori debbano oggi, quando si è ormai scoperto quanto sia importante educare i bambini nella conoscenza dei problemi legati al sesso, sostituire alla patetica menzogna la molto più sana e costruttiva verità.
PERCHÉ I GAMBERI CAMMINANO ALL'INDIETRO?
Il tipo degli Artropodi, uno tra i più importanti della fauna terrestre, abbraccia ben 70.000 specie, in una straordinaria varietà di forme. Questi animali posseggono alcune particolarità in comune laterale del corpo, distinto generalmente in tre regioni: capo, torace e addome. Ciascuna di queste regioni è, a sua volta, formata da un certo numero di segmenti, scarsi nel capo, più numerosi nel torace e nell'addome. Spesso il capo e il torace sono fusi in un pezzo unico che si chiama, allora, capotorace.
Tutti gli Artropodi sono rivestiti di un «dermascheletro» fatto di una sostanza cornea dura e resistente detta «chitina» che, in corrispondenza delle articolazioni si mantiene sottile e flessibile per consentire i movimenti degli arti. La corazza chitinosa, rigida ed inestensibile, non consentirebbe l'accrescimento corporeo dell'animale: è per questo che esso, raggiunto un certo grado di sviluppo, si sveste della vecchia corazza e se ne fabbrica un'altra più grande e più comoda.
Agli Artropodi, oltre alle classi degli Insetti, degli Aracnidi e dei Miriapodi, appartiene anche la classe dei Crostacei, Artropodi in massima parte acquatici. Questi hanno, come principale caratteristica, la corazza chitinosa fortemente indurita per deposito di sali calcarei, sottratti alle acque.
Il Capo, nei Crostacei, è generalmente unito al torace e porta occhi composti, di solito peduncolati, due paia di antenne, e il complesso apparato boccale è formato da vari elementi.
I Crostacei respirano per mezzo di branchie che sporgono in forma di appendici piumate dai piedi toracici e addominali: solo poche specie minute hanno respirazione cutanea.
Ai Crostacei, in particolare all'ordine dei Toracóstraci e al sottordine dei Decapodi (dieci piedi) appartiene il Gambero.
Possiede cinque paia ti piedi locomotori, di cui il paio anteriore, toracico, termina con due robuste tenaglie dette «chele». Ha l'addome allungato e l'ultimo segmento si presenta slargato in una specie di pinna a ventaglio detta «telson». All'ordine dei Toracóstraci appartiene anche il Granchio che, a differenza del gambero, ha addome breve, quasi atrofizzato, privo di telson e nascosto sotto il corpo.
I gamberi e soprattutto i granchi hanno la proprietà, grazie al numero delle zampe e alla forma del corpo, di spostarsi in ogni direzione. Il fatto è assai più visibile nei granchi, enormemente agevolati dalla forma tondeggiante del corpo, tanto che si dovrebbe dire «andare indietro come un granchio» e non «come un gambero».
Ma gli antichi che hanno coniato il detto non avevano una nomenclatura zoologica ricca come la nostra e non sempre distinguevano chiaramente il gambero dal granchio.
PERCHÉ IL GATTO RIESCE A CADERE SEMPRE IN PIEDI?
Parlando dell'equilibrio abbiamo detto come esso consista nella capacità di un organismo di reagire alle variazioni della posizione del capo e dell'intero corpo nello spazio. La percezione dello spostamento viene fornita al cervello da particolari organi ricettori. Nell'uomo questi organi sono i ricettori del labirinto, nell'orecchio interno, quindi i ricettori muscolari, tendinei, articolari e i ricettori visivi.
Negli animali la percezione dipende principalmente dai ricettori acustici, tattili, chimici e termici.
Ciò che eccita i ricettori è l'accelerazione, di ogni tipo, e principalmente l'accelerazione di gravità. Un esempio di reazione riflessa all'accelerazione ci è data dal gatto.
Se un gatto, anche bendato, cade da una certa altezza con la schiena rivolta verso il basso, si raddrizza durante la caduta e compie un perfetto atterraggio sulle zampe. Il riflesso di raddrizzamento avviene in tempi successivi, ma in rapidissima successione: dapprima l'animale ruota il capo, ritrae gli arti anteriori ed estende quelli posteriori, poi ruota il corpo e gradualmente estende le zampe anteriori finché, compiuta per intero la rotazione, è in grado di cadere sulle zampe senza prodursi fratture o lesioni.
PERCHÉ ALCUNI ANIMALI VIVONO AI POLI?
Perché certe specie animali si adattano a vivere a latitudini in cui la temperatura invernale tocca anche una media di 50° sotto zero? C'è da credere che non tutti gli animali delle regioni circumpolari amino particolarmente il freddo. Forse si sono concentrati in quelle remote zone per sfuggire alla caccia da parte dell'uomo, adattandosi a poco a poco ai rigori del clima.
Prendiamo, ad esempio, l'Orso Polare, la cui pelle soffice e calda è assai ricercata soprattutto dagli abitanti delle zone artiche.
Esso si distingue dagli altri esemplari della stessa famiglia insediati in altre zone del globo, per le maggiori dimensioni del suo corpo, per la sua prodigiosa resistenza e per la pelliccia particolarmente spessa e folta. Il suo nutrimento consiste principalmente in preda viva: foche ed altri animali polari, ma non può certo trovarne gran che, tra le nevi ed i ghiacci perenni tra cui si svolge la sua esistenza. È per questo che ha attitudini predatrici assai sviluppate e quindi un carattere meno pacifico di quello degli altri orsi. È un fatto recente la concentrazione delle balene soprattutto nella regione antartica: qui esse cercano zone meno battute dall'uomo, che dà loro una caccia spietata, a scopo commerciale.
Altri animali come i Pinnipedi, vivono invece nelle regioni circumpolari da tempo immemorabile e sembrano trovarcisi benissimo.
Le foche hanno un corpo rivestito da uno spesso pannicolo adiposo sottocutaneo, che impedisce la dispersione del calore interno. Anch'esse vengono cacciate accanitamente dall'uomo, che mira ad impadronirsi della loro pelle e dell'olio che si può ricavare dal loro grasso.
Quanto ai Pinguini, essi sono tra gli animali più socievoli e miti che ci siano al mondo: si avvicinano senza timore all'uomo, con fare calmo e dignitoso; sono curiosi, ma assai compiti. Perché allora vivono nelle terre antartiche, in zone dove gli uomini capitano raramente?
Perché, così, evitano di subire le conseguenze della loro socievolezza.
Il loro isolamento è provvidenziale: sia perché permette loro di conservare un atteggiamento fiducioso verso l uomo, sia, soprattutto, perché le zone in cui vivono, essendo poco battute, sono ricche di pesci, di cui sono ghiotti.
PERCHÉ LA MOSCA «TSE-TSE» PROVOCA LA MALATTIA DEL SONNO?
Tse-tse, termine d'origine bantu, filtrato attraverso la lingua francese, è il nome comune della «Glossina palpalis», una mosca che vive nelle regioni tropicali ed equatoriali, e che trasmette il «Tripanosoma gambiense», agente patogeno della malattia del sonno.
I tripanosomi sono Protozoi Flagellati, parassiti del sangue e dei tessuti dei Vertebrati, i quali vengono succhiati dalla mosca col sangue di animali infetti, specialmente le antilopi, ed iniettati poi nel sangue degli altri animali e dell'uomo. In breve, avviene come nel caso della trasmissione della malaria da parte della zanzara «anofele», di cui abbiamo già parlato in precedenza. La malattia del sonno è una malattia infettiva a decorso cronico. I sintomi insorgono dopo un periodo di incubazione che dura da poche settimane a qualche anno: dapprima il soggetto infettato ha febbri, adenopatia ed eruzioni cutanee. In seguito, quando i tripanosomi invadono l'asse cerebro-spinale, si determinano disturbi nervosi di una certa gravità, quali il tremore e la incoordinazione dei movimenti, quindi cefalee e soprattutto apatia e sonnolenza.
La malattia ha di per sé un esito letale, ma, se sottoposta ad una terapia tempestiva, può essere vinta grazie all'azione microbica di preparati arsenicali e di antibiotici.
Come la zanzara anofele diffonde la malaria, così la mosca Tse-Tse inietta i tripanosomi della malattia del sonno. E chiaramente visibile la spiritromba con cui la mosca incide l'epidermide degli animali e dell'uomo per nutrirsi del loro sangue. La mosca qui rappresentata e comunque a digiuno: dopo il pasto cruento, infatti, Il suo addome si gonfia straordinariamente.
La Glossina palpalis è diffusa soprattutto in Africa: in rosso è segnata l'area di maggior diffusione della mosca tse-tse e quindi della malattia del sonno.
PERCHÉ SI FANNO LE CORSE DEI CAVALLI?
Durante il Pliocene superiore nel Nord America il genere Pliohippus, discendente diretto degli Hyracotheridae dell'Eocene, dette origine agli Equini, che emigrarono nell'Eurasia.
Mentre in America si estinsero nel Quaternario, in Asia prosperarono, evolvendosi.
I cavalli furono addomesticati dagli indoeuropei circa venti secoli prima di Cristo; tra le razze più antiche e famose ricordiamo: il cavallo arabo, che già in quei tempi e prima ancora che l'uomo imparasse ad addomesticarlo, aveva raggiunto una notevole finezza naturale; il cavallo dei Paesi Bassi, più pesante e grande dell'arabo, che fu usato dagli antichi cavalieri e che ha dato poi origine alla razza da tiro percheron.
Oggi si usa classificare le razze equine in tre gruppi principali: le Dolicomorfe di forma slanciata e veloce, le mesomorfe di proporzioni medie e, per ultimo, le brachiforme, che comprendono cavalli dalla forma tozza, dall'ampio torace e dalla larga groppa.
Al primo gruppo appartengono i cavalli da corsa, al secondo i cavalli da sella e da tiro leggero, al terzo i cavalli da tiro pesante.
Dalle poche razze originarie, in virtù dell'incrocio continuamente operato dagli uomini, per ottenere cavalli dalle particolari caratteristiche, si svilupparono moltissime razze equine.
Si ritiene che l'allevamento vero e proprio dei cavalli risalga al diciassettesimo secolo, quando in Inghilterra nacque il «purosangue», ottenuto dall'incrocio tra il normale cavallo da sella e il purosangue arabo (Darley Arabian, Byrley Turk, Godolphin Arabian).
Tra le razze dolicoforme, da corsa, ricordiamo, oltre al purosangue inglese, il trottatore americano, derivato dall'inglese, il trottatore Orloff, russo, il trottatore francese, selezionato in Normandia, e il trottatore italiano, derivato da quello americano.
Al gruppo dolicomorfo appartiene anche la razza africana, che ha uno dei suoi migliori esemplari nel cavallo berbero.
Antichissima è l'usanza di far correre i cavalli e di gareggiare con essi. Si ritiene che gli uomini abbiano imparato a cavalcare intorno al XIII secolo a.C. I popoli che eccelsero in questa arte furono gli Assiri, gli Egiziani e soprattutto gli Sciti.
Parlando delle Olimpiadi abbiamo detto come le corse dei cavalli e dei carri trainati da cavalli facessero parte dei giochi, ed è nota la passione dei Romani per la corsa delle bighe e delle quadrighe. È interessante ricordare, tra l'altro, che gli antichi cavalcavano non solo senza staffe ma addirittura a «pelo». L'uso della staffa risale, infatti, al primo secolo d.C.
Le corse dei cavalli hanno come scopo principale la selezione e la valutazione degli animali, delle razze e degli incroci, e come scopi secondari (che hanno poi prevalso, soprattutto nei tempi moderni) l'esibizione dei cavalieri e soprattutto le scommesse degli spettatori sui vincenti, sui piazzati e così via.
Le corse piane al galoppo sono riservate ai purosangue, mentre nel nostro secolo è aumentato assai l'interesse per le corse al trotto. I trottatori corrono attaccati a leggeri carrozzini detti «sulkies» e si differenziano dai purosangue delle corse al galoppo per il loro modo di correre, per l'andatura «artificiale».
Il galoppo, infatti, è il modo naturale di correre di un cavallo, che lo esegue istintivamente quando sente ch'è necessaria la velocità. Il trotto invece è un modo artificiale di correre poiché il cavallo appoggia sul terreno alternativamente le gambe anteriori e posteriori opposte. La prova dell'«artificialità» del trotto sta nel fatto che il cavallo è portato istintivamente a «rompere», a passare, cioè, dal trotto al galoppo.